DICIANNOVE - PARTE II

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Sogno

Sfiorai il settimo bottone del pannello e anche in quel caso permisi alla memoria del carcerato di incastrarsi nel filone incatenato di quelle precedenti. Ormai sentivo che la testa si era trasformata in un vero e proprio scrigno, che non dovevo assolutamente dimenticare di chiudere a chiave, per evitare la fuga dei preziosi ricordi custoditi all'interno. Terminato il loop temporale, che mi aveva proposto la stessa sensazione allucinogena delle volte precedenti, il settimo bottone andò a far compagnia a tutti gli altri e rimase acceso in modo fisso.
Ne mancano solo tre, e dopo? Come finirà il gioco?
Sì, ormai ero giunto alla condizione di considerare quell'esperienza un enorme gioco del destino, un qualcosa che non potevo controllare − a meno che non avessi deciso di non dormire più per il resto della vita! − e di cui avrei compreso il senso solamente alla fine. Forse. Nonostante non avessi ancora il coraggio e il bisogno di aprire il quaderno delle poesie, mi stupii del modo leggero e quasi consuetudinario con il quale la mia coscienza si era abituata a percepire quella situazione.
Però, quando tornai nell'ascensore non pensai al gioco del destino o a ciò che sarebbe successo più avanti; ero solo pervaso da una rabbia ardente a causa delle parole disperate del carcerato. L'incontro con quell'uomo aveva attizzato in me un fuoco interiore che non ero mai stato così convinto di poter sprigionare. E lo aveva fatto in modo molto spontaneo. L'uomo aveva detto che si trattava dell'effetto che fa la verità sulle anime di chi tenta di nasconderla costantemente e questo mi aveva mandato ancora più sulle furie, perché non sentivo affatto di far parte di quella categoria. Sicuramente però, se ancora nell'ascensore ero intento ad asciugarmi il volto dai rimasugli doloranti delle lacrime, voleva dire che l'invettiva lanciata da quell'omicida aveva avuto su di me un qualche effetto. Non ebbi modo e tempo di chiederglielo, ma mi convinsi che si dovesse trattare di un abile affabulatore: egli aveva perfettamente capito, infatti, che mettere un uomo davanti ad una condizione così tragica, come quella di un mondo privo del sentimento d'amore, voleva dire farlo impazzire. In modi e forme arbitrariamente diversi, l'emozione dell'amore viene percepita dagli uomini come un approdo sicuro dove la mente e il cuore possono rifugiarsi, anche se si tratta di un rapporto fittizio e inesistente. L'assassino aveva perfettamente intuito che il mondo riconosceva l'amore per qualcuno − da non confondere con quello per sé stessi − come una sostanza stupefacente di grande qualità, una specie di oppio dei popoli. Ed era molto bravo a sfruttarne gli effetti.
Io non potevo che sentirmi parte integrante del mondo che l'uomo aveva descritto in modo così aspro; il sentirsi giudicato duramente e con quella facilità, inoltre, aveva intaccato la mia tranquillità morale e aumentato la voglia di rimanere lì davanti per continuare la conversazione finché non fossimo arrivati ad un comune approdo, ci fosse voluta anche l'eternità. Ma non ne ebbi modo. L'uomo chiuse ogni possibilità di interagire ancora e tutto ciò che ora mi rimaneva era un paio di pugni chiusi di rabbia e un pizzico di disperazione che lui stesso mi aveva trasmesso.
Mentre cercavo di scuotermi dalla durezza che mi aveva infuso sottopelle, la porta dell'ascensore si aprì in un parco.
Era giorno e la luce calda del Sole mi asciugò in fretta e definitivamente le guance umide. Uscii questa volta con fare più spavaldo, sia perché avevo bisogno di un luogo aperto dove poter camminare liberamente per poter sciogliere la frustrazione e l'adrenalina che avevo accumulato; e poi perché quel parco mi sembrava familiare e volevo accertarmene. L'ambiente assomigliava, infatti, ad una zona residenziale vicina a quella dove abitavo io, ricca di parchi e zone verdi dove poter far giocare i bambini o portare a spasso i cani. Di fronte a me si sviluppava un vialetto in mattoni che percorreva l'intero parco zigzagando nell'erba bassa, con qualche alberello secco sparso qua e là, fra il recinto dell'area cani e gli scivoli per bimbi. Ai lati del sentiero, come rocce sugli argini di un fiume, si alternavano a distanza irregolare delle panchine di legno lucido.
Su una di queste era seduto un uomo.
Seduto in realtà è un eufemismo: se ne stava stravaccato con una gamba distesa sulla panchina e l'altra per terra, il gomito sinistro a reggergli la posa sdraiata e nella mano destra una bottiglia di birra praticamente finita che brandiva al cielo fieramente. Dietro la panchina ce n'erano altre otto, tutte vuote.
Mi avvicinai preoccupato. Era giovane, non gli avrei dato più di trentacinque anni. Indossava una maglia a maniche corte completamente inzuppata di birra, pantaloni sgualciti e scarpe sporche. Stava ad occhi chiusi, mormorando a bassa voce i versi di una canzone con la chioma di capelli biondi ricci schiacciati sullo schienale della panchina.
− Ehi, stai bene? − gli chiesi.
Il giovane non mi aveva sentito arrivare, quindi appena sentì la mia voce smise di canticchiare, aprì gli occhi con la stessa lentezza di quando si stacca una ventosa dal muro, aggrottò la fronte e portò in avanti il capo.
− E tu chi saresti?
Aveva la voce impastata dall'alcool, come se si fosse appena svegliato, ma non sembrava in gravi condizioni. Non sapevo cosa rispondergli, quindi continuai sulla stessa linea.
− Sei sicuro di star bene? Sei... un barbone?
Indugiai qualche secondo prima di pronunciare quella parola, con la paura che venisse fraintesa come un insulto, ma il ragazzo non si offese affatto, anzi scoppiò a ridere. Fece per tirarsi su, ma una fitta alla testa lo costrinse a fermarsi e a massaggiarsi le tempie per qualche secondo.
− No che non sono un barbone, − disse quando il dolore passò. Ogni parola che pronunciava usciva dalla sua bocca pesante una tonnellata. Quando si mise a sedere in modo composto respirava affannato, come se avesse appena terminato una corsa, e con gli occhi chiusi tentava di far entrare nei polmoni più aria possibile.
− Devo essermi preso una bella sbronza, − continuò ridendo. Poi avvicinò la bottiglia alla bocca, ne bevve le ultime gocce e la lasciò vuota vicino a lui.
− Hai bisogno che chiami qualcuno? − gli chiesi ancora incerto sulle sue condizioni psico-fisiche.
− Ma no, sta' buono, non mi serve niente. Parli come uno che non si è mai sbronzato, − sbiascicò, stropicciandosi gli occhi.
− Certo che mi è capitato, ma tu hai bevuto davvero tanto, − e gli indicai la fila di bottiglie vuote dietro la panchina. Lui si girò lentamente e fece una smorfia, poi mi guardò e si batté qualche colpo sulla pancia.
− Evidentemente ho uno stomaco che regge bene l'alcool, − rispose.
In quel momento osservai bene il suo sguardo: nell'alone di incoscienza in cui si trovava immerso, riuscii ad intravedere della sofferenza. La pelle sotto agli occhi era come invecchiata precocemente e non soltanto a causa delle tante ore di sonno che probabilmente avrebbe dovuto recuperare. Il velo puro e incontaminato della retina aveva assunto un'aura brillante, un colore traslucido, come se fosse stato attraversato bruscamente da una forte emozione. La debolezza con cui la palpebra richiudeva i misteri di quel dolore sotto di sé non era soltanto frutto di un torpore alcolico, ma un tentativo implicito di nascondere una ferita che all'aria aperta si sarebbe presto seccata, incidendosi per sempre in quel punto. Attorno alle narici e su entrambe le guance si distinguevano, seppur ormai sbiaditi, i segni lontani di una pelle arrossata.
− Hai pianto, vero?
Inizialmente fu come se quella mia domanda ridestò in lui una certa forza, con la quale strabuzzò gli occhi ad una velocità a lui forse sconosciuta. Poi, perso lo stupore, si sciolse di nuovo. Incrociò le dita e fissò verso il basso.
− Si nota così tanto? − mi chiese arreso.
Stavolta sorrisi io. Feci spallucce. Lui ammiccò. Dopo poco presi io l'iniziativa.
− Posso sedermi?
− Prego, − mi rispose enfaticamente, con il tono di chi sta facendo accomodare qualcuno su un trono. Prese la bottiglia e la tenne in mano.
− Dev'essere successo qualcosa di grosso, mi sa, − tentai di sdrammatizzare.
Il ragazzo alzò la testa verso il cielo, inspirò a pieni polmoni e sbuffò pensieroso per trovare le parole giuste.
− Come dire... − iniziò. − Ti sei mai sentito senza equilibrio?
Stavo guardando un albero del parco che oscillava lento e perdeva le sue foglie come polvere al vento, e quando sentii quell'ultima parola mi venne spontaneamente da sorridere. Avrei voluto tanto raccontare al ragazzo dell'esistenza dell'acrobata, di colui che per definizione conduceva la sua vita senza un perno fisso, ma lasciandosi cullare dalla dolcezza delle cose meravigliose, che sono da sempre squilibrate; avrei voluto raccontargli anche dell'esistenza del controllore di motivazioni, un uomo integerrimo che aveva teorizzato, come il più rigido dei filosofi, un sistema di funzionamento del mondo nel quale tutti, prima o poi, raggiungiamo la condizione del perduto, del forestiero che vaga errante nel bosco intricato delle proprie scelte. Aveva proprio ragione, pensai.
Non gli parlai, però, di nessuno di loro. Mi avrebbe sicuramente preso per pazzo.
− Intendi come quell'albero lì? − gli chiesi, indicando ciò che stavo osservando da qualche minuto.
Lui si soffermò per un istante su quel tronco lontano, smilzo, privo di difese, che assisteva incapace e squilibrato al sequestro programmato di ogni sua foglia.
− Sì, esatto. Forse anche di più.
− Beh, sicuramente hai più birre tu in corpo che lui, − risposi tentando di smorzare la conversazione. Il giovane rise contento, poi tornò serio.
− Lui almeno è così di natura. È nato sbilanciato e se n'è fatto una ragione, pure se subisce delle conseguenze non volute. Il problema sta quando perdi qualcosa che hai ottenuto con forza e fatica per colpa di altro. In quel caso, ti senti come se avessi perso tutto.
− Qualcosa ti ha fatto perdere l'equilibrio?
− Qualcuno, − sottolineò. Non risposi, aspettai che si prendesse tutto il tempo necessario. Poi mi chiese:
− Ti sei mai fidato di qualcuno a tal punto da affidargli il centro di te stesso?
Iniziò a giocherellare con le dita sull'anello della bottiglia.
− Sì, certo. Diverse volte.
− Ecco, a me ne è bastata una per far crollare il sistema. Ho pensato che dare in mano a qualcuno le redini del mio asse cosmico potesse essere un vantaggio... Sai, osservare sé stessi da un punto esterno dà la possibilità di scoprirsi meglio, a maggior ragione se questo punto è un porto sicuro dove sentirsi riparati da tutto. Mi sentivo come un astronauta che dalla stazione spaziale riesce ad osservare la meraviglia della Terra ed è invidiato da tutti gli uomini, che invece ci vivono dentro e possono vederne solo alcune proiezioni.
Si fermò un istante, poi concluse:
− Fortunatamente, mi sono accorto che affidare la propria fiducia alle cose inanimate, invece, − disse indicando le bottiglie dietro di noi, − non ti deluderà mai. Loro almeno non sanno cosa siano i sentimenti e non possono ferirteli.
Osservava quegli oggetti con tenerezza, con lo sguardo dolce di un padre. Io lo fissavo rapito dal contorto intrico di elementi che tenevano insieme quel rapporto.
− Hai provato amore? − gli chiesi.
Mi rispose immediatamente.
− Tanto. Troppo.
Cercavo in ogni modo di pesare accuratamente le parole, per non risultare invadente e accompagnare lo sfogo in modo naturale, senza forzature.
− Da quanto tempo va avanti?
− Qualche mese.
− Non credi si sia trattato solo di... sfortuna? Magari hai incontrato la persona più insensibile della faccia della Terra.
Mi presi qualche secondo in più per concludere la frase con un termine che mi sembrasse appropriato. Il ragazzo fece una smorfia.
− Sfortuna, − ripeté sottovoce. − Non so dirti cosa sia stato realmente e credimi che mi sto scervellando da mesi per poter trovare una risposta, ma ti giuro, non ci riesco. So solo che a volte l'amore fa più danni che altro. Spesso penso che vivremmo meglio se la fiducia non esistesse. Ti illude di qualcosa che non esiste.
Avrei voluto raccontare al giovane dell'assassino dell'Amore, credo sarebbero andati molto d'accordo; ma per un obbligo morale personale, mi ero imposto di non diventare in alcun modo portavoce della ricostruzione così nefasta che mi aveva mostrato il carcerato. Sarebbe stato come mancare di rispetto al mondo in cui vivevo, all'umanità intera che vaga alla ricerca della propria felicità e ingenuamente pensa di trovarla nel cuore di qualcun altro.
− E cosa ti danno le birre che le persone finora non ti hanno dato?
− La sensazione di sentirmi completo e sazio della vita. Come se il dolore non esistesse.
− Quindi è sempre un'illusione, − risposi spiazzandolo.
Il ragazzo ci pensò su, poi disse:
− Sì, ma in questo modo non hai da rendere conto a nessuno delle tue scelte. Cioè, io sono certo che questo torpore in cui mi trovo non deciderà mai di tradirmi, perché l'ho creato io per me, senza interpellare o dare fastidio a nessun altro. La fiducia, invece, da sola non si costruisce. Ha bisogno sempre di due poli magnetici che si attraggono, di due agganci per tendere la corda. È costantemente in bilico, almeno finché uno dei due perni non si stacca e cade. E quello che resta soffre perché il peso da sobbarcarsi è eccessivo.
− Per questo motivo è preziosa, − risposi a bruciapelo.
− La fiducia?
− Sì. La proprietà fisica più importante della fiducia è la fragilità. Quando tieni in mano un oggetto di cristallo, o delle uova, o del vetro, rallenti i movimenti per paura di romperli. La fiducia va trattata allo stesso modo.
− Sì, ma io l'ho sempre fatto. Il punto è che non può dipendere solo da me.
− È il rischio malefico della fragilità, − dissi allargando le braccia. − Qualsiasi cosa che non dipenda esclusivamente da te ha un rischio più elevato di insuccesso, ma non per questo vuol dire che esistono solo insuccessi. Adesso è come se a te avessero fatto cadere dalle mani un bicchiere di vetro, facendolo rompere. Ciò non vuol mica dire che non esistono altri bicchieri di vetro, magari più brillanti ed eleganti.
Il ragazzo sospirò.
− Ma perché non poteva andarmi bene alla prima occasione, dico io...
− Ognuno ha il suo tempo nelle cose. E poi, prova solo a pensare ad un mondo egoista, come dicevi prima. Tutti gli uomini sarebbero poli magnetici di una singola carica, batterie positive o negative che da sole perdono la loro funzione. La scienza studia fenomeni di condivisione fra gli elementi e le cose del mondo, non li considera mai singolarmente. E questo dovremmo farlo anche noi, fingendoci geografi dell'uomo: dovremmo studiarci come arcipelaghi, non come isole racchiuse in un perimetro definito e prosciugabile. Sta nella nostra natura non sentirci soli.
Quell'ultima frase la pronunciai con vigore, come se la stessi dicendo a me stesso. Percepii quel momento come la continuazione mai avvenuta del dialogo con il carcerato. Esprimere quella frase con forza voleva dire per me convincermi che una soluzione poteva esserci, che ci doveva pur essere qualcosa che questa fragile umanità avesse fatto di buono.
− Tu hai fiducia nel mondo? − mi chiese come se avesse letto nel pensiero l'accaduto nel carcere.
− L'uomo ha dato origine all'Amore, quindi avere fiducia nel mondo è un dovere nei nostri stessi confronti.
− L'uomo ha anche generato l'Odio, però, − ribatté immediatamente il giovane.
− Hai ragione, infatti è una lotta interna che si può vincere solamente avendo fiducia nelle proprie risorse. Se si alza bandiera bianca all'Odio, il mondo diventa un cumulo infinito di buio.
Il giovane abbassò lo sguardo.
− A me a volte sembra di esserci rimasto incastrato, in questo buio ricolmo di aspettative oscure da rispettare.
Lo guardai intenerito.
− E credi che quelle possano essere una soluzione per uscirne? − e con un cenno del volto indicai la bottiglia che aveva in mano.
− Te l'ho detto, sono una scorciatoia per farmi sentire sazio.
Feci una smorfia e allungai lo sguardo in avanti, fissando il punto dove il sentiero di mattoni si immetteva su una strada asfaltata, ai confini del parchetto.
− Non commettere l'errore di proteggerti dietro una bottiglia, perché il vetro riflette la tua immagine e ti si vede in ogni caso. Lo so che si tratta di uno sforzo immane, soprattutto quando vieni ferito a sangue dalla vita, ma devi provarci. Se perdi la speranza nel mondo, la tua intera esistenza terminerà su questa panchina; piuttosto, lavora per trasformare il sangue denso della ferita in colore acceso da utilizzare per dipingere un cuore su una tela, come se fossi un moderno Caravaggio. Mettici il cuore nelle cose e vedrai che al buio non ci rimarrai mai più.
Sentii dei movimenti, mi voltai e vidi il ragazzo alzarsi ancora un po' intontito dalla sbornia. Si sgranchì le ossa, lasciò le bottiglie al loro posto e si fermò davanti a me, con la luce calda del Sole che gli illuminava dolcemente il volto.
− Spero solo che il sangue delle mie ferite non sia nero di buio, altrimenti per me sarà impossibile uscirne.
Fece qualche passo in avanti, poi si fermò, mi guardò nuovamente e mi disse:
− Grazie per avere fiducia in me.
Lo osservai allontanarsi verso la strada asfaltata e ad ogni passo sembrava che la luce del Sole diventasse sempre più potente, come se lo stesse inglobando nel suo etereo manto. Poi sparì in un'esplosione tenera di luce che mi costrinse a chiudere gli occhi per qualche secondo. Quando li riaprii, sul sentiero di mattoni vidi apparire delle lettere dalla forma densa e romantica come quelle che si incidono sul tronco di un albero per rendere immortale un amore. Mi alzai in piedi e lessi:

NERO
Ho deluso
le aspettative
del buio
quelle in cui ero
un'ombra fresca
ubriaca di notte.
Ora oscillo
mi proietto
dal bicchiere che trema in mano
rosso potente
che mi spinge su.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora