QUINDICI

33 0 0
                                    

Sogno

Mentre il rumore ovattato degli ingranaggi che spingevano in alto l'ascensore si stava riducendo − probabile segnale che di lì a poco la cabina si sarebbe aperta −, il mio sguardo si era soffermato sul pannello nero in cui, negli ascensori normali, si trovano i bottoni con i numeri dei piani dell'edificio. In questo caso, invece, non veniva mostrata nessuna indicazione su dove mi trovassi, né tantomeno su dove stessi andando. L'unica cosa che sapevo era di stare salendo, poiché sentivo da sotto i piedi la forza motrice dell'ascensore spingermi in alto.
Il pannello nero era costituito da una base in plastica rigida, in cui si trovava un display che mostrava una freccia verso l'alto, non accompagnata da nessun numero; in basso invece, si trovavano le due colonne di bottoni, sormontate dall'immagine di una stella gialla. Contai i pulsanti: erano dieci, cinque per colonna, bianchi, vuoti e bombati sulla superficie.
In quel momento mi resi conto di un dettaglio: nella colonna di sinistra, i primi tre bottoni erano accesi, mentre il quarto lampeggiava ad intermittenza; gli altri sei bottoni erano spenti. Fu un'occhiata quasi istantanea, che mi estraniò dal vuoto stracolmo dei miei pensieri e mi fece ripiombare nella realtà di quell'ascensore, che sembrava ripresentarsi di continuo senza che la mia memoria ne fosse consapevole.
Spinto da una genuina curiosità, o forse solo attratto dalla tentazione di sfiorare quella superficie liscia e tondeggiante, alzai lentamente la mano destra e la avvicinai al pannello per toccare il quarto bottone, ma mi fermai. Avevo la netta sensazione che non avrei dovuto farlo; percepivo sul palmo della mia mano un calore lugubre. La parte più profonda della mia coscienza mi stava avvertendo in qualche modo che sarebbe stata una sensazione forte, di quelle che di solito vengono generate dai sentimenti e che lasciano strascichi profondi. A me, però, gli avvertimenti non piacevano; ne avevo timore, perché mi facevano dubitare delle mie idee e mi facevano credere di non scegliere mai la strada giusta, andando spesso ad influenzare le mie decisioni. Questa volta, però, qualcosa mi stava spingendo a disobbedire, come se il sistema di autodifesa della mia anima mi stesse ingiustamente proteggendo da un'esperienza tanto forte, quanto inevitabile. Non so concretamente cosa mi spinse per la prima volta a ribellarmi, forse il pensiero che in fondo dietro ogni forma di calore, ci fosse del bene.
Deglutii e toccai il bottone.
In quell'istante scomparve tutto, non mi funzionava più nessuno dei sensi: c'era buio ovunque attorno a me. L'evanescenza durò pochissimi secondi, giusto l'attimo di permettere al cuore di fermarsi, riflettere e ripartire. Dopodiché cominciai a sentire − nel senso più astratto e inumano del termine − un flusso di ricordi scorrere rapidissimo nei corridoi della mia mente sgombra. Fu come osservare un paesaggio dal finestrino di un treno o di una macchina spinti a folle velocità: i colori dei ricordi, come punti di luce che rendono vive le città di notte, cominciarono a correre all'impazzata, allungandosi, sorpassandomi, confondendosi fra loro e producendo il sibilo smorzato della velocità. Era quello l'unico suono che riempiva ad intermittenza l'immobilità del tempo − se ancora di tempo si poteva parlare − in cui ero stato catapultato. Probabilmente, un occhio esterno mi avrebbe giudicato sotto effetto di qualche strana sostanza, mentre a me quell'assurdo loop sembrava molto più che reale.
La sensazione di concretezza che avevo percepito in quei pochissimi istanti di tempo risultò vera quando il buio vuoto cominciò a riempirsi di immagini, fotografie, ritagli temporali che, rapidi come i punti di luce di poco prima, inquadravano una scena: io seduto al bancone di un bar con un bicchiere di whisky in mano, due uomini in due tavoli lontani che fissavano intensamente i loro drink, un barista dagli occhi glaciali intento a lavare un bicchiere e una donna dai capelli ramati lunghissimi china sul bancone.
Roy...
Il pensiero fu automatico, uscì alla mente senza sforzi. Fino a qualche secondo prima non ricordavo affatto di essere stato in un bar con quelle persone, tantomeno di aver ordinato da bere, mentre ora, fotogramma dopo fotogramma, i ricordi giungevano puri e limpidi nei corridoi della mia mente, riempiendola come se fossero sempre stati lì, ma rinchiusi in qualche cassetto.
La Morte...
L'intera superficie esterna del mio corpo considerava quelle memorie totalmente nuove, mentre la mia mente mi comunicava di averli in qualche modo riconosciuti in un passato a me ignoto, come se stessi rincontrando dopo anni il gruppo di amici di scuola che non vedevo da tanto tempo.
Lucrezio...
Sta di fatto che lentamente il puzzle si completò e fui in grado di addentrarmi precisamente e con consapevolezza nelle trame di un ricordo che a tutti gli effetti mi apparteneva, ma che ancora credevo mi fosse stato iniettato dall'esterno.
Annegare...
L'arrivo improvviso di questo ultimo tassello fu implacabile: il percorso delle fotografie si ribaltò e si indirizzò a ritroso nello spazio indecifrabile della mente ad una velocità ancora maggiore; poi tornò il corridoio buio e le lunghe scie di colore con il sibilo ad intermittenza, anch'esse nel tragitto inverso. Quando i miei occhi riuscirono ad osservare nuovamente il pannello bianco dell'ascensore mi rimase la sensazione di un intenso risucchio, come se per pochi istanti fossi annegato davvero.
Tornò il rumore ovattato degli ingranaggi dell'ascensore a riempire il silenzio asettico della cabina. Strizzai un paio di volte gli occhi per verificare di trovarmi in un luogo familiare − aggettivo paradossale da attribuirgli, ma in quel momento lo sentivo tale − e ritrovai con molta calma la pace. La luce gialla attorno al quarto bottone era rimasta accesa, il neon sopra la mia testa continuava ad illuminare freddamente il vano e il velluto rosso delle pareti perseverava ancora nella sua opera di rendere elegante un ambiente così grigio: tutto era tornato alla "normalità", tranne me.
Dopo quell'esperienza mi sentivo più consapevole: secondo dopo secondo, stavo ammorbidendo la durezza di quei ricordi nella mia mente per assorbirli nella loro interezza. E ovviamente, non nascondo che la curiosità non accennava a diminuire.
Gli altri tre bottoni illuminati...
Terminare il pensiero a parole sarebbe stato fin troppo stupido da parte mia, per cui, in un istante di coraggio e istinto, toccai il terzo bottone.
Il fenomeno si ripresentò nuovamente identico: il flusso di ricordi, i punti di luce che diventavano scie e i fotogrammi di una scena, che questa volta però, era diversa. Si susseguirono immagini di me nel corridoio di una scuola in cui mi affacciavo ad una delle finestre, poi altre in cui entravo in uno dei bagni e infine di me seduto ad un banco di fronte ad un uomo in giacca e cravatta che indicava la lavagna.
Prof...
Anche in questo caso il processo di acquisizione delle memorie fu lo stesso: mi ricordai improvvisamente di Prof, della sua teoria sulle emozioni, del suo rapporto con la matematica e del modo intenso con cui riuscì a mettermi in contatto con la poesia, elemento che lui era certissimo mi appartenesse già in principio.
Quando toccai anche gli altri due bottoni illuminati, la conoscenza si completò definitivamente. Apparvero le immagini di me con un acrobata in mezzo ad una vallata a discutere di meraviglia e dell'incontro su una spiaggia con un gabbiano che aveva deciso a tutti i costi di voler scoprire i segreti della poesia. Rimasi folgorato dalla profondità di quelle esperienze che ero sicuro di non aver mai vissuto; anzi, per un momento provai anche una certa invidia per quel presunto me che aveva avuto la fortuna di esserne protagonista, senza ritenermi incluso in alcun modo. Il cambiamento di percezione, però, arrivò lentamente e in modo quasi impercettibile: così come le radici di una pianta assorbono lentamente l'acqua quando vengono innaffiate, quasi a volerne assaporarne il gusto e l'essenza in modo consapevole, così il terreno da poco seminato della mia mente stava ricevendo il flusso liquido di quella conoscenza e solo dopo, al termine di tutte e quattro le storie, mentre fissavo ancora immobile il pannello dell'ascensore rimasto immutato, cominciai inspiegabilmente a considerare quelle esperienze veramente mie. Senza poter essere in grado di intervenire nel processo, le memorie di quegli incontri vennero modellate e assorbite, entrando a tutti gli effetti a far parte di me.
Si trattava, in ogni caso, di esperienze causate dal viaggio nell'ascensore: mi ero ritrovato in luoghi molto particolari con personaggi altrettanto strani che potevano appartenere solo a quell'assurda dimensione. Inoltre, ora che tutti i pezzi del puzzle erano al loro posto, arrivai alla conclusione che la mia incredulità nel trovarmi nell'ascensore per la prima volta, spaesato e senza sapere come ci fossi arrivato era una completa illusione, data dalla mancanza di consapevolezza: non è vero che era la prima volta che mi trovavo lì, ci ero già stato altre quattro volte e non lo ricordavo. D'altronde, nessuno mi aveva costretto a toccare i bottoni, era stata una scelta mia, un'intuizione che aveva prevalso sullo shock di non sapere dove mi trovassi e che − arrivati a questo punto ne ero certo − nelle occasioni precedenti non aveva mai vinto. Era come scegliere il punto di vista o l'angolazione da utilizzare per uno scatto fotografico o un quadro: la mia coscienza voleva spingermi verso l'inconsapevolezza come meccanismo di autodifesa, ma io avevo scelto il livello massimo di difficoltà. Non ero mai stato un tipo coraggioso, ma istintivo sì, e in quella circostanza il mio fedele compagno Istinto mi aveva fatto capire di dovermi fare avanti, che solo per stavolta la coscienza poteva farsi da parte, perché per qualche motivazione a me sconosciuta, c'era bisogno che io di quella storia non fossi un semplice spettatore, ma il protagonista. E per ora mi andava bene così.
Il ronzio sordo degli ingranaggi si placò del tutto, la spinta verso l'alto che sentivo sotto i piedi cessò e, come avevo immaginato, la porta dell'ascensore lentamente si aprì. La luce del Sole illuminò il vano e mi riscaldò il viso con i suoi raggi. Era all'incirca mezzogiorno e sentivo un leggerissimo e piacevole vento massaggiarmi i capelli, quasi capace di sollevare da terra il mio corpo e la mia anima. Feci un passo in avanti, uscendo dalla zona di accecamento e, dopo che gli occhi smaltirono la luce, mi accorsi di trovarmi in una stazione.
A giudicare dal cartello azzurro posto su una delle colonne di fronte a me, mi trovavo al binario 2 di una stazione ferroviaria sconosciuta. C'era sì un pannello rettangolare blu nella zona esterna vicina al binario 1, ma senza il nome di alcuna città; inoltre, anche i display dei cinque binari di cui era composta la stazione erano privi di indicazioni, nonostante notai subito diverse decine di persone dividersi sulle varie banchine. Ognuno di quegli individui si mostrava cristallizzato in un bozzolo invisibile di pensieri, problemi, sogni e desideri. Ognuno di essi era in grado di apparire poetico per il mistero che l'accerchiava e allo stesso tempo concreto per il proprio semplice esistere nel mondo in quell'esatto momento e in quell'esatto luogo, alcuni con un bagaglio di vestiti, altri con un vestito a fare da bagaglio, altri ancora con un intero armadio di dolore e buio o un cassetto segreto di gioia e luce. Tutti stretti nel corridoio compresso dei loro passi ripetuti avanti e indietro, in una corale danza d'ansia per ciò che li avrebbe attesi o ciò che avrebbero abbandonato. Lasciai per un attimo che il vento mi trascinasse in quella lenta coreografia di respiri e mi facesse intravedere lo scrigno prezioso di quei cuori. Poi mi voltai verso l'ascensore e mi accorsi con grossa sorpresa che non era collegato a nessun cavo o sistema elettrico, ma semplicemente si trovava aperto lì, come se ci fosse sempre stato, una porta sulla parete del destino. Lo stupore, però, durò pochi minuti e ciò che pensai mi fece sorridere.
Inutile che ti stupisca più di tanto se hai appena scoperto di essere stato trasportato da questo aggeggio in una vallata sperduta chissà dove, su una spiaggia rivolta al mare, in un bar e in una scuola immersa fra le nuvole...
Tornai a focalizzarmi sulla stazione. Nessuna delle persone che si trovava lì si era accorta del mio rocambolesco arrivo e probabilmente non era neanche in grado di vedere me o l'ascensore alle mie spalle: avevo davanti altri esemplari della stessa specie a cui appartenevano i due uomini nel bar di Roy, coloro che ‹‹hanno paura e svolgono un cameo››, come li aveva definiti il barista. Inoltre, mi resi conto che in tutti e cinque i binari mancava il sottopassaggio che permetteva il collegamento fra la struttura centrale della stazione e le singole banchine: praticamente, nessuno di noi era in grado di poter tornare indietro. Eravamo tutti bloccati nell'attesa di un approdo, proiettati obbligatoriamente in avanti. Escluso il modo in cui ero arrivato io, sapere come quelle persone avevano raggiunto i binari restava l'ennesima domanda a cui non seppi dare una risposta. Per di più, come ultimo dettaglio − ammetto, non così confortante − notai che sul binario 2 non c'era nessun altro oltre a me. Ero stato talmente preso dall'osservare le persone da una banchina all'altra, che non mi ero accorto di essere il futuro unico passeggero del treno che si sarebbe fermato al binario 2 di quella sconosciuta stazione.
Almeno così credevo finché non avanzai.
Passai davanti a panchine e distributori automatici, elementi classici di una stazione che contribuivano a rendere nebulosa quell'apparente normalità. Mi fermai a metà banchina, interrompendo il rumore dei passi e restituendo al vento lo scettro di direttore d'orchestra di quel silenzio. Strinsi a fondo le palpebre per osservare meglio ciò che avevo intravisto in fondo. Lì, seduto sull'ultima panchina a diversi metri da me, c'era un uomo in una divisa grigia e rossa, con un cappello e un borsello degli stessi colori. Stava con una gamba accavallata sull'altra e le braccia conserte, fissando i binari di fronte a lui; di rado faceva dei piccoli movimenti con la punta del piede, unico segnale che da lontano faceva intuire che non fosse imbalsamato. A mano a mano che mi avvicinavo, si fecero nitidi anche i dettagli del volto: viso squadrato, angoli della mascella ben definiti, sguardo e sopracciglia scuri, basette castane e un folto pizzetto. Sembrava un uomo uscito direttamente dagli anni Settanta. Nell'avvicinarmi, ridussi progressivamente la velocità fino all'immaginario punto in cui credevo non mi avrebbe notato, a qualche metro da lui, come chi spia di nascosto da dietro un cespuglio e si avvicina rischiando, ma sperando di non essere visto. Per mia sfortuna però, l'udito dell'uomo era molto più pregiato di quanto pensassi. Si voltò alla sua sinistra e mi fissò in silenzio per qualche secondo.
− Buongiorno.
Una voce calma entrò nel concerto leggera come le prime note di un pianoforte.
− S-salve, − risposi imbarazzato.
− Ha paura di me? − mi chiese sorridendo.
Strabuzzai un paio di volte gli occhi, preso un po' alla sprovvista.
− N-no, n-no.
− La sua voce sembra dire tutt'altro.
− È che sono imbarazzato, non so chi è lei e neanche dove mi trovo. Mi sento un po' spaesato.
L'uomo annuì lentamente con la testa più volte, come se io avessi appena enunciato una convenzione universale sul mondo e lui la volesse avvalorare con forza. Ricominciò con costanza a muovere la punta del piede.
− Succede un po' a tutti, − disse poi.
− Che cosa?
− Di sentirsi spaesati. È una condizione in cui prima o poi si ritrovano tutti, non crede? − e spostò gli occhi dall'orizzonte a me in modo netto, facendomi distogliere lo sguardo da lui. Mi strinsi nelle spalle, non sapendo cosa dire.
− Non saprei proprio. Forse per chi sa dove andare non è proprio così.
L'uomo sorrise ancora. Ebbi il presentimento che le mie risposte fossero talmente banali da risultare addirittura comiche e questo mi imbarazzava ancora di più.
− Come fa a riconoscere coloro che sanno dove vanno da chi non lo sa?
Allargai le braccia, ma la leggera e costante confidenza che l'uomo aveva cominciato a prendersi con me mi rendeva un po' più sereno nelle risposte.
− Non so, forse dipende da degli scopi. Se uno lavora, sa dove deve presentarsi ogni mattina per svolgere la sua mansione.
L'uomo strinse gli occhi e guardò per un attimo sopra di sé.
− Quindi in pratica i disoccupati sono ciechi, secondo questo ragionamento.
Feci per obiettare, ma arrossii e mi grattai la testa confuso.
− Non lo so, signore, mi fa delle domande troppo complicate. Non volevo dire questo, ho solo fatto un esempio.
Abbassai lo sguardo e non sentii alcuna risposta, solo il continuo lavoro del direttore d'orchestra che continuava leggiadro nella sua corale. Poi parlò.
− Prego, si sieda qui vicino a me se vuole, almeno si gode meglio il calore del Sole.
Effettivamente la panchina, essendo l'ultima della banchina, era l'unica ad essere ancora illuminata dalla luce e l'uomo si stava godendo quella sensazione di nuova vitalità come una pianta che assorbe energia e si nutre dei raggi di Sole.
Lentamente mi sedetti di fianco a lui, ancora immerso nella sua serena immobilità. Da vicino osservai i suoi abiti e scoprii che sul lato sinistro del cappello, sulla giacca e sui pantaloni era ricamato un logo stilizzato di un treno rosso e bianco, con a fianco una scritta, che però non riuscivo a comprendere. Mentre riflettevo su quale domanda porgli, l'uomo mi anticipò.
− Sa che cos'è questa cosa dove ci troviamo, no?
Per un attimo riuscì a farmi perdere anche quella certezza.
− Suppongo sia una stazione, − risposi ironicamente.
− Questo è il nome comune che gli uomini le hanno dato.
Il ricordo della Morte si presentò fulmineo alla mente e le sue parole mi uscirono istintive, senza nessun freno.
− Per paura? − dissi.
L'uomo cessò bruscamente di muovere la punta del piede e si voltò verso di me sorridente.
− Sì, esatto, per paura. Come faceva ad esserne così certo?
Stavolta il sorriso spuntò a me. Feci spallucce.
− È una lunga storia, gliela risparmio. Ma perché dovrei avere paura di una stazione?
− In realtà non si tratta di paura di questo luogo, ma di ciò che c'è fuori. Questa è una "gabbia" costruita dagli uomini per racchiudere una parte delle proprie radici e potersi sentire al riparo da ciò che fuori le strapperà via. Come una sorta di rifugio dalla pioggia da cui non si vorrebbe mai fuggire, almeno finché dura il temporale. Per questo motivo, credo che sia difficile distinguere tra chi sa dove sta andando e chi no, semplicemente perché i luoghi fisici nascono da stimoli esterni, da richiami delle esigenze della vita quotidiana; sono scrigni dove le persone custodiscono una parte di sé nella speranza di ritrovarla sempre, così da non sentirsi spaesati. Tutta fatica sprecata... Li guardi qui davanti a lei, non le sembrano tutti così distratti?
L'uomo mi invitò a guardare con un rapido gesto del mento le persone che occupavano gli altri binari, poi dopo qualche secondo riprese.
− Sono impegnati a seminare il più possibile di loro in lungo e in largo sulla banchina. Non vogliono che alcun centimetro di cemento resti scoperto dalle loro radici. Il treno è solo una falce che spezzerà il loro legame con la terra e li trapianterà da un'altra parte. Li capisco, anche io proverei paura.
− Sembra che li conosca tutti di persona... − commentai con voce lenta e pacata, lasciandogli lo spazio per continuare la frase. Lui, intanto, continuava a guardare davanti a sé.
− Sono un controllore. Faccio questo lavoro da tanti anni e ho imparato molte cose dalle persone con cui sono stato a contatto; ora riesco rapidamente a prevedere in che condizione troverò la motivazione di qualcuno, o addirittura se qualcun altro si è ricordato di timbrarla oppure no, semplicemente dallo sguardo di chi ho di fronte.
Ero seriamente in confusione.
− Scusi, ma di cosa sta parlando? I controllori verificano che i passeggeri abbiano con sé i propri biglietti. Cosa c'entra la motivazione, ora?
Il controllore si schiacciò il palmo della mano sulla fronte, come se si fosse appena ricordato di qualcosa di importante.
− Mi scusi, − disse. − Mi dimentico sempre che voi li chiamate biglietti. Per noi addetti ai lavori si tratta di motivazioni. È tutto ciò per cui una persona decide di partire e le posso garantire che in tanti anni di lavoro sono stati rari i casi in cui non le trovassi sgualcite, accartocciate, se non addirittura dimenticate da qualche parte. Quelli che vede davanti a lei sono tutti pellegrini erranti in un bosco talmente grande da occupare l'intero mondo. Li riconosco.
Quella spiegazione mi apparve assurda. Mentre riflettevo sulle parole del controllore, rimasi a fissare quella strana compagine umana che avevo di fronte, cullata dolcemente dalla melodia del vento.
− E mi dica un po', secondo lei anche io sono un forestiero come loro? − chiesi senza voltarmi.
− Forestiero... Che parola coraggiosa. Comunque, dipende a che punto del suo percorso si trova. Se si trova alle soglie del bosco, significa che è ancora attaccato alle radici che ha appena terminato di seminare, come queste persone. Se crede di trovarsi nel cuore della foresta, in cui il sentiero dell'inizio si perde nei grovigli della vegetazione, allora sì, è ufficialmente un forestiero. È come se fosse già sul treno che fra poco accoglierà questi individui.
− A dire la verità, credo di non sapere precisamente in che punto mi trovi. O forse non ci ho mai pensato.
Il controllore allargò le braccia.
− Allora, come vede ho ragione nel dire che prima o poi tutti provano la sensazione dello spaesamento.
Spostai lo sguardo su di lui.
− Perché ha detto che la parola forestiero è coraggiosa?
− Ho pensato che sia singolare che una parola che nel suo significato indica un individuo instabile, contenga la radice del termine foresta, che è proprio il luogo di smarrimento e perdizione. È coraggiosa perché indica la condizione in cui ci si trova al di fuori di questa gabbia, quando si sono perse le proprie radici. È una parola che non ha paura di rappresentare lo smarrimento dell'uomo e non si costringe a dover rinchiudere delle certezze da qualche parte per sentirsi vivi, come invece hanno fatto gli uomini costruendo questo posto. Il treno a breve trasformerà anche loro in forestieri, ma prima che smetteranno di considerarla una maledizione, passerà ancora del tempo.
Calò il silenzio, il Sole ora illuminava solo un piccolo pezzo della panchina alla destra del controllore adesso completamente in ombra, e, come se avesse voluto aspettare che terminassimo il nostro dialogo, con un tempismo quasi premeditato, giunse nell'aria il fischio del treno. Arrivò al binario 4, a occhio quello più gremito di passeggeri. Si trattava di un mezzo visibilmente antico, ma che probabilmente era stato da poco riverniciato per conferirgli un aspetto ancora piacevole. Giunse dalla nostra sinistra che stava già rallentando, i freni stridettero fastidiosamente per qualche secondo e infine si fermò. Da quella distanza potemmo ammirare nella sua totalità la bellezza delle sette carrozze che lo componevano: la vernice era di un verde smeraldo, densa, luminosa, elegante. La striscia inferiore, quella che copriva per buona parte le ruote del treno, era di colore nero, così come l'inchiostro con cui era stata incisa la stessa scritta presente sul cappello e sulla divisa del controllore, probabilmente il nome della compagnia ferroviaria di cui faceva parte.
I vetri dei finestrini erano inspiegabilmente neri, tanto da non riuscire ad intravedere nulla di ciò che si nascondeva dietro. Non so dire se si trattò di pura coincidenza o meno, fatto sta che pochi secondi dopo l'arrivo del treno, il vento cessò del tutto, come se lo spartito del direttore d'orchestra fosse terminato esattamente in quel momento.
Le porte si aprirono automaticamente e solo in quel momento riuscii a scorgere per qualche secondo alcuni particolari dell'interno: una luce calda che illuminava i corridoi, un pavimento grigio e neutro, delle maniglie di acciaio per reggersi e la valigetta del kit di pronto soccorso appesa ad una parete. Nulla di così trascendente rispetto ad un comunissimo treno. La cosa strana fu che dalle carrozze non scese nessun passeggero, tranne che per due uomini vestiti con la stessa divisa dell'uomo seduto al mio fianco, i quali controllarono le persone sul binario e le fecero defluire nelle diverse entrate. Dopodiché, fecero cenno al macchinista che erano saliti tutti e si imbarcarono anche loro, in attesa di ripartire. Fu una scena assurdamente realistica.
Fu il controllore a spezzare quel lungo silenzio.
− Colleghi... − disse sorridendo con un cenno rivolto verso quegli uomini.
− Li conosce? − chiesi senza voltarmi. L'uomo accanto a me invertì l'accavallamento delle gambe, ma rimase a braccia conserte.
− No, personalmente no. Ma sono certo che stanno facendo un ottimo lavoro.
− Senta, ma perché non è sceso nessuno?
Fece una smorfia e attese un po', poi parlò.
− Perché questo luogo non è la destinazione di nessuno.
− Però è stato il punto di partenza per tutti quelli che sono saliti da qui, no?
− Sì, e non può essere che questo. Non può avere altri ruoli nella loro storia.
− Ma quanti sono là dentro? Non si vede niente dai finestrini, c'è posto per tutti?
Il controllore rise di gusto.
− Lei è un ragazzo molto curioso e questo le fa un grande onore, − rispose. − Comunque, sì, c'è posto per tutti, stia tranquillo. Come le dicevo, le stazioni sono state costruite per ingabbiare e restringere; i treni, invece, permettono a tutti di combattere la paura, di falciare la propria radice cementata e scoprire il mondo al di là; quindi, non mancheranno mai dei posti liberi.
− E per noi, invece, cos'è questo posto? Non credo che diventeremo dei passeggeri, giusto?
− Per me è un osservatorio. Non sono in alcun modo legato alle vite di quelle persone, così come non lo è un astronomo che contempla le stelle dal suo cannocchiale. Ma il fascino della contemplazione resta per entrambi. Per lei credo sia solo un'esperienza di passaggio... − si fermò riflettendo su quest'ultima parola, poi sorrise e concluse: − Beh, effettivamente un po' passeggero lei lo è.
Lo stridulo rumore delle ruote che cominciavano a muoversi in avanti mi distolse dal rispondergli. Il treno partì lentamente nella fredda ombra che ormai aveva preso il posto del Sole in quasi tutta la superficie della stazione. Quando si dissolse all'orizzonte, il controllore diede una rapida occhiata ai passeggeri degli altri binari, poi si alzò dalla panchina e si sgranchì le ossa.
− Dove va? − gli chiesi con apprensione.
− Credo che il mio lavoro qui sia finito, o no? È stato un vero piacere conoscerla, caro ragazzo. Sono proprio convinto che la sua motivazione non è affatto sgualcita e che sta solo aspettando che lei torni per mostrarla un giorno ad uno dei miei colleghi... chissà, magari anche a me.
Si sistemò il borsello sulla spalla e si aggiustò il cappello.
− Arrivederci, − disse e cominciò a camminare lungo la banchina, nella direzione opposta a quella da cui ero arrivato.
− Ehi, aspetti un attimo...
Mi alzai frettolosamente e cercai di trattenerlo. Lui si voltò una volta ancora, continuando a camminare.
− Non faccia come loro, ragazzo. Non commetta anche lei l'errore di provare pa...
Non riuscii a sentire la fine della frase perché improvvisamente si alzò pericoloso il vento: da elegante melodia d'orchestra assunse le sembianze di un canto infernale, distruttivo. Crebbe potente, denso e sinuoso come i rivoli di sangue che scorrono da una ferita, costringendomi a riparare gli occhi da quella furia. Mi aggrappai alla colonna più vicina stringendo il volto nell'angolo del gomito, in attesa che tutto quel fracasso terminasse. Non avevo avuto neanche il tempo di controllare che fine avessero fatto le persone sui binari, se anche loro stessero subendo la rabbia di quella musica funesta. Dopo qualche minuto, il clamore cessò, mi stropicciai con decisione gli occhi, tornai al centro del binario e guardai nella direzione in cui si era incamminato il controllore. Ma lui non c'era più. Svanito, come una delle tante foglie che la tempesta aveva trasportato via. Dissolto, come la paura vinta dai forestieri.
Quando mi fui completamente ripreso, osservai gli altri binari e mi accorsi che le persone sembravano non aver risentito delle conseguenze di quell'episodio. L'iniziale rappresentazione del quadretto di una fetta di umanità dignitosa e riflessiva non era cambiata.
Mi voltai verso l'ascensore e lo trovai − come di consueto, seguendo i miei recenti ricordi − aperto. Tutto era uguale a prima, ma c'era qualcosa di nuovo che destava la mia curiosità: ai piedi del vano dell'ascensore la tempesta di poco prima aveva dato origine ad un gigantesco tappeto di foglie sparse. Ce n'erano tante e di diversi colori; probabilmente tutte quelle che fino a poco prima giacevano in punti diversi della banchina erano state radunate in quel punto. Formavano un quadrato quasi perfetto, come se fossero state depositate lì una ad una da mano umana. La mia mente catalogò il fenomeno come l'ennesima assurdità accaduta in quella dimensione da quando ero arrivato; quindi, non ci pensai molto su e ripresi a camminare. Non feci in tempo a calpestare la prima foglia, che in un attimo si alzò nuovamente il canto sonoro del vento, stavolta meno potente e più dolce nel suono, come il soffio leggero di un bimbo su una candelina. Tanto bastò affinché il tappeto si disfacesse e per i miei occhi nascesse vivido lo stupore. Sul cemento sgombro, infatti, apparvero delle parole.

Ho scoperto il vento
audace del forestiero
attraccato ai binari di un treno.
Portava con sé
le mezze notti gelide
della solitudine di un cuore
e il richiamo lungo
del Viaggio
che desiderava staccarlo
dalle radici profonde della terra.

Fu un vento liquido,
il suo sangue,
che ora ancora
insegue.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora