UNDICI

42 0 0
                                    

Sogno

L'ascensore si aprì nel corridoio di una scuola.
Fui inondato dalla luce: sulla mia destra si sviluppava una serie infinita di finestre che dava sul nulla. Una volta uscito, mi avvicinai al primo vetro, sperando di ottenere delle informazioni sul luogo in cui mi trovavo, ma si vedeva solo luce, in una sorta di cielo rarefatto e senza contorni. La minuscola fiammella di coraggio che mi bruciava dentro mi convinse ad afferrare la maniglia fredda della finestra, la quale però non accennava ad aprirsi, come se fosse bloccata da un meccanismo interno e invisibile; una parte di me, probabilmente quella più paurosa e inconsapevole, tirò un sospiro di sollievo.
Dall'altro lato del corridoio c'erano le aule: su un muro biancoceleste si trovavano una decina di porte di legno chiuse, visibilmente consumate e con gli angoli sbeccati, su alcune delle quali si leggeva ancora il nome della classe di appartenenza. Inoltre, sul muro a metà corridoio si sporgeva una campanella di ottone dorato e a fianco era fissato un orologio bloccato sulle ore 9:00.
Regnava un silenzio surreale per essere una scuola: l'unico rumore che si sentiva era quello dei miei passi sul pavimento a mattonelle azzurre. Percorsi l'intero corridoio angosciato da quel suono, raggiunsi l'estremo opposto a dove si trovava l'ascensore e mi ritrovai di fronte alla porta socchiusa del bagno, indicata da una piccola insegna blu con la scritta WC che sporgeva dal muro.
Entrai.
A dispetto di ciò che pensavo, l'interno del bagno era abbastanza pulito: alla sinistra dell'ingresso si trovavano i lavabi comuni sotto uno specchio rettangolare e sporcato da alcune macchioline d'acqua; dei neon bianchi sul soffitto illuminavano le porte che distinguevano il bagno dei maschi da quello delle femmine, entrambe di legno e con l'etichetta distintiva del sesso, che però non raffigurava i classici omini stilizzati. Stavo per entrare nel bagno di sinistra quando mi accorsi di quella stranezza: notai che entrambe le etichette, per qualche motivo, erano contraddistinte dalla presenza del numero 9. Entrai comunque, ma nulla sembrava fuori posto, tranne che per questo dettaglio. Quindi, uscii.
Nel tornare indietro, però, vidi che la porta di un'aula era stata aperta e lasciata socchiusa: era appartenuta ad una immaginaria classe 5°A, e dallo spiraglio fuoriusciva una luce calda che attirò la mia attenzione. Da più vicino si sentiva anche un ticchettio regolare provenire dall'interno.
Aprendo la porta, fui accolto da un ambiente invaso dalla luce calda dei neon sul soffitto. Davanti a me tre serie di banchi vuoti, planisferi geografici appesi alle pareti, un armadio grigio semiaperto, un orologio che segnava le 9:00 appeso alla parete in fondo e una cattedra. Dietro di essa c'era un uomo in completo nero che, di spalle a me, stava scrivendo qualcosa alla lavagna.

Nove non ha accettato
ciò che gli è stato imposto
è nato come l'origine,
il principio, uno zero
primordiale.
Ma stiracchiarsi voleva dire
occupare un posto nel mondo
troppo grande per la sua anima
e così si rannicchiò in sé stesso,
scardinò senza saperlo
gli argini, dando fastidio a tutti
quando lo incontravano
ripetuto all'infinito

Non siamo fatti
per essere sempre amati.
Quando posò il gessetto, rimase qualche secondo a fissare quei versi, come a voler controllare di non aver scritto qualcosa di sbagliato; poi si voltò e si accorse di me.
− Ah, sei arrivato finalmente, – esclamò.
Era un uomo giovane, elegante nell'abito e nella postura; emanava una qualche forma di aura pacifica e rilassante che era riuscita ad insinuarsi in me sottopelle già da quella prima battuta.
Lo guardai corrucciato.
– Perché, mi stava aspettando?
L'uomo si passò una mano nei biondi capelli lisci e sorrise.
– Non è che ti stavo aspettando, ti stavo cercando.
Il mio sguardo avvolto in una confusione senza confini non dovette convincerlo più di tanto.
– Stai tranquillo, non è questo l'importante. Ora siediti dove vuoi e leggi qui, – disse, indicando la lavagna.
Presi un banco della fila centrale: mettermi in fondo sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti, ma la mia indole timida, mista alla confusione che stavo provando in quel momento, non mi incoraggiarono a sedermi davanti. In ogni caso, all'uomo non sembrò importare più di tanto.
− Coraggio, leggi ad alta voce.
Obbedii alla richiesta, ma nell'istante in cui aprii bocca la mia voce mutò e assunse dei tratti musicali, quasi melodici, mentre le parole sulla lavagna si illuminavano di una luce dorata quando le pronunciavo. Sembrava che stessi subendo una trasformazione psico-fisica su cui non potevo avere il controllo, come un esperimento fatto sulla mia voce da qualche scienziato pazzo e la cosa mi inquietò, per cui la mia lettura fu scandita dal ritmo della paura. L'uomo se ne accorse.
− Cosa c'è che non va, perché ti trema la voce? – mi chiese dolcemente.
− Che cosa mi sta succedendo? 
Non feci in tempo a finire la domanda che la mia voce era tornata normale. Più guardavo l'uomo, più lui mi sorrideva, come se dal suo punto di vista non stesse succedendo nulla di anomalo. Spostai lo sguardo nuovamente alla lavagna e sussurrai l'inizio di quella che mi sembrava una poesia: di nuovo la musica dentro.
− Non capisco di cosa parli, – mi rispose.
− Tu... chi sei? – chiesi e la voce tornò normale. Inoltre, mi resi conto sùbito di essere passato istintivamente a dargli del tu.
− Piacere, mi chiamo Prof., – rispose, mantenendo fermo il suo sfarzoso sorriso.
− Il tuo nome... è Prof.?
L'uomo allargò le braccia ed indicò l'aula in cui eravamo.
– Beh, d'altronde non è ciò che facciamo nella vita ad indicare chi siamo?
− Allora io dovrei chiamarmi Incompetente, – risposi.
Prof. si concesse una risata per poi tornare immediatamente serio.
− Su, non dire scemenze. Mi vuoi dire, invece, perché prima ti tremava la voce?
− Mi sono spaventato perché è cambiata di colpo.
Prof. corrucciò la fronte. – Cambiata? In che senso?
− Non hai sentito come una melodia, una musica? Mi sembrava di essere diventato un juke box.
Prof. mi guardò incuriosito.
– No, non ho sentito nulla.
Rilessi il primo verso della poesia alla lavagna e fui nuovamente investito di una sensazione melodica difficile da spiegare a parole. Guardai Prof. per avere conferma che stavolta avesse sentito anche lui, ma scosse la testa.
− Ti è piaciuta così tanto che la rileggi? – mi chiese sorridendo.
− Quando leggo ciò che hai scritto alla lavagna, la mia voce acquisisce una sorta di melodia, di musica, che però mi viene fuori da dentro e inaspettatamente; poi le lettere si illuminano quando le pronuncio. Che stregonerie sono mai queste?
Prof. abbassò lo sguardo e sorrise.
– Adesso capisco. Non sono stregonerie, caro mio. È che quelle parole ti appartengono e vengono stimolate dalla voce del loro possessore.
− In che senso mi appartengono?
− Nel senso etimologico della parola. Appartenere deriva dal latino pertinēre, che vuol dire "estendersi". Appartenere vuol dire essere l'estensione di qualcosa o di qualcuno. Pensaci bene, secondo me l'hai già provata questa sensazione.
C'era un qualcosa nelle sue parole che mi appariva vero, anche se non riuscivo a dargli una chiara forma. Una parte di me era estremamente convinta che Prof. stesse dicendo la verità ed era la stessa parte che si sentiva inspiegabilmente a suo agio leggendo la poesia.
− Non so di cosa tu stia parlando, ma sento che hai ragione, – dissi a Prof. – Ti sei mai sentito così?
− Ammetto di sì. Quando sono riuscito nell'intento di diventare professore, ho percepito una nuova forza nascermi dentro, come se il mio corpo si stesse espandendo, mettendosi in una posizione più comoda, diciamo. Mi sentivo attratto da qualcosa che poi imparai a chiamare scopo.
Pronunciò quell'ultima parola scandendo precisamente ogni lettera, non so se volontariamente o meno, ma sicuramente il risultato fu solenne.
Poi indicò con il braccio destro la lavagna.
– Vedi? Anche Nove ha scoperto di appartenere a qualcosa. Lui è riuscito a rannicchiarsi, ma allo stesso tempo a rompere le catene che lo legavano alla sua origine.
Corrucciai la fronte. – Ma di chi stai parlando?
− Di Nove, il protagonista. Non vedi come si sviluppa dettagliatamente la sua storia?
Abbozzai un sorriso carico di incomprensione.
– Ma da quando i numeri hanno una storia?
Prof. sospirò.
– Da sempre, caro mio. E pensare che siano semplici costruzioni inanimate della nostra mente è l'errore più grande che tu possa commettere; anzi, spesso le loro storie sono molto più simili alle nostre di quanto tu possa credere. Se percepisci che questi versi abbiano a che fare con te, allora devi metterti in ascolto del messaggio che Nove vuole trasmetterti.
− Quello che sento è uno stato d'animo, non ha nulla di definito; è come se la lavagna stesse emanando dei raggi che mi colpiscono, che riesco solo a sentire e non vedere, – ammisi. Dopo aver mimato con le mani il gesto dell'irraggiamento, feci spallucce per tentare di far capire a Prof quanto fosse complicato per me giungere al suo ragionamento.
− Che cosa insegni? – chiesi per provare una via alternativa.
− Matematica.
− Quindi il tuo interesse è sempre stato rivolto nel conoscere la "biografia" dei numeri?
− Non mi sono mai interessato io a loro; loro si sono scoperti a me, esattamente come questa poesia riesce a fare inconsapevolmente con te, − poi si fermò e osservò nuovamente la lavagna. − Vedi, Nove è nato imperfetto, o quantomeno lui si vedeva così; è nato insieme agli altri nel calderone primigenio dello zero, dove la più piccola particella di materia è identica a tutte le altre e aspetta solo di essere modellata. Stare in quel posto, lungo il confine dello zero, era una responsabilità troppo grande per lui, perché ci si assumeva il compito di essere perfetti per propria natura. Nove non si è mai sentito perfetto, anzi pensava di essere ingabbiato in un'ellissi verticale chiusa in cui non aveva respiro. Egli voleva disperatamente uscire per prendere una boccata d'aria e sentirsi vivo grazie al fresco vento del mondo, ma doveva farlo rigorosamente da solo, perché era timido. Per questo motivo, con forza − una forza imparagonabile a quella di nessuna impresa umana − Nove si contorse e creò uno spiraglio, una fessura che allargò piano piano per permettere all'aria di entrare. In questa sua nuova e difettosa forma lui trovò la sua perfezione; trasformò la timidezza nella sua più grande forza e si sentì per la prima volta libero.
Passò qualche secondo in cui tentai mentalmente di ripercorrere le parole di Prof. con la paura che il silenzio me le avrebbe fatte dimenticare: somigliavo ad uno scalatore, avido di aggrapparsi alla sporgenza successiva, perché non vede l'ora di giungere alla vetta per osservare il panorama dall'alto.
Istintivamente pensai che la mia storia fosse decisamente molto simile a quella di Nove e questo mi fece comprendere meglio ciò che Prof aveva voluto dirmi all'inizio, e cioè che quelle parole, in un modo o nell'altro, mi appartenevano. Dal mio sguardo perso, l'uomo comprese tutto ciò.
− Ora capisci? – mi disse.
Spostai lentamente lo sguardo su di lui in un misto tra ammirazione e inquietudine, come un turista che cerca di osservare in ogni punto una scultura greca, per ammirarne l'intera grandezza.
− Sì, ma perché non riesco a dare un nome a queste cose? Ci dovrà essere pur un modo per capire realmente cosa mi succede, no?
Prof sfoggiò il suo più grande sorriso, si avvicinò lentamente a me e un profumo intenso e fresco mi riempì le narici.
− Si chiamano emozioni, caro mio. Non puoi dare loro un nome, è impossibile, soprattutto quando di mezzo c'è la poesia. Scordati di pensare di poter ingabbiare nei recinti delle parole le sensazioni, è un lavoro perso. Io ci ho provato tutta la vita coi numeri e mi sono accorto che neanche loro, per quanto analitici siano, riescono a spiegare il risultato di un'emozione. Figurati le parole, che sono emotive per natura.
Notò che le sue parole non riuscirono a calmarmi e aggiunse:
− Ma non c'è da avere paura. Devi imparare a considerarle parte di te, non dei mostri da sconfiggere. Più cerchi di nasconderle negli angoli remoti della tua anima, peggio sarà per te; piuttosto, continua a fare affidamento sullo strumento migliore che hai trovato per convivere con loro, – e mi indicò per l'ennesima volta la lavagna.
Dopodiché, Prof. si voltò, osservò l'orologio che continuava a segnare le 9:00 e, senza curarsi di quella stranezza, mi disse:
− Bene, ora credo che sia arrivato il momento per te di andare.
Non feci in tempo a rispondere che sentii provenire dal corridoio esterno all'aula il rumore stridulo dell'acciaio della porta dell'ascensore che si apriva. Mi alzai con circospezione, ingarbugliato ancora in una serie infinita di dubbi e mi diressi alla porta.
− Lasciati andare, caro ragazzo, – mi disse Prof mentre uscivo.
Non mi voltai, non volevo far sì che il suo sguardo mi penetrasse la coscienza e si aggiungesse alle già infinite cose che di lui mi rimanevano misteriose. Durante il breve tragitto verso l'ascensore ripercorsi velocemente quell'incontro: era come se la mia coscienza avesse vissuto più vite, fosse annegata e poi riemersa, squarciata e poi ricucita a dovere. Per quello strano orologio non era passato nemmeno un secondo, ma per me di tempo ne era trascorso tanto, dentro e fuori.
Entrai nell'ascensore e mai come questa volta la cabina mi sembrò calda e accogliente. Alzai gli occhi e osservai il neon rettangolare sopra di me: la luce era dell'azzurro freddo tipico di un cielo invernale.
Questo pensai è il potere della poesia.

Un vento di distanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora