Giorno
Mi svegliai di scatto ancora sudato.
Per essere davvero sicuro di essere tornato nel mondo dei vivi, misi alla prova la mia sensibilità al tatto e tastai ansiosamente la cosa che avevo più vicino, La stanza 102, ultimo romanzo di un importante scrittore tedesco, lasciato capovolto sul comodino dalla notte precedente a pagina 108.
Inizialmente, imputai al libro la causa di quel sogno: leggere un thriller psicologico prima di dormire di certo non può proiettare in sonno l'immagine di un gregge di pecore che corre in un prato fiorito sotto un cielo cristallino.
Sarà solo pura coincidenza, la scena di un libro letto tempo fa che mi è rimasta particolarmente impressa...
Commettevo spesso "l'errore" di usare i libri come risposta a delle particolari situazioni che mi capitavano nella vita: una sorta di scorciatoia nel tentativo di trovare una soluzione, seppur illusoria, ad un dubbio. Inconsciamente, quell'"errore" me lo facevo andare sempre bene. D'altronde, lavorando in una libreria, nel corso del tempo mi era venuto quasi imprescindibile dipendere da ciò che vendevo. Vivevo, insomma, la classica situazione per cui il lavoro diventa parte integrante della propria vita privata, ma non in senso negativo, come avviene per la maggior parte delle persone: io consideravo la mia una condizione di estremo lusso.
Mi alzai dal letto, aprii la finestra e alzai la tapparella per rinfrescare l'aria viziata dell'ambiente chiuso; poi, mi stiracchiai. Presi il romanzo sul comodino, lo osservai qualche istante e lo richiusi in modo corretto.
Fin da piccolo mi ero ripromesso che nella mia futura casa avrei dedicato ai libri uno spazio significativo, indipendentemente dalla grandezza dell'appartamento e così avevo fatto da quando il mio lavoro mi aveva consentito di vivere da solo. Sulla parete centrale della mia camera, infatti, avevo organizzato un enorme scaffale bianco che conteneva tutti i miei romanzi letti. Il resto dell'arredamento era piuttosto semplice: un letto ad una piazza e mezzo; una scrivania di legno sulla sinistra con una lampada e tutto l'occorrente per scrivere o leggere; qualche mensola con foto e ricordi dell'infanzia.
Oltre alla camera, un bagno e una cucina con angolo cottura completavano il perimetro dell'appartamento. Nulla di eccezionale, ma comodo per la posizione rispetto a dove lavoravo e immerso in una pace che un essere solitario come me considerava essenziale.
Andai in bagno e mi fissai allo specchio, ma, come ogni mattina, non riuscivo mai a trovare in quello sguardo qualcosa che mi soddisfacesse. Sì, il lavoro mi piaceva, coltivavo diverse passioni e il valore che il silenzio riusciva a regalarmi quotidianamente senza dover dipendere da nessun'altra persona, era impagabile. Ma sentivo comunque che mancasse qualcosa. Non disprezzavo la monotonia di una vita condotta da solo, anzi questo mi portava a riflettere molto su me stesso, ma a volte sentivo di aver oltrepassato il limite che una mente razionale può raggiungere. Le conseguenze si traducevano quasi sempre in vertigini psicologiche, come se mi spingessi oltre un baratro che mi proiettava nel vuoto.
Mancavo di stabilità, ecco. Certo, non esiste un'età precisa in cui si acquisisce questa condizione, anzi alcuni neanche la ricercavano più di tanto. Su di me, invece, era un bisogno che cresceva latente nel corso del tempo; avrei tanto voluto continuare a preservare la mia parte irregolare e istintiva, ma mitigandola con delle certezze.
Per questo motivo allo specchio, il mio sorriso spesso aveva più le fattezze di una smorfia.
Mi lavai e feci colazione. Poi, mi preparai per iniziare una nuova giornata di lavoro, l'unico posto in cui questi pensieri riuscivano a non arrivare mai.
Tre anni fa, quando decisi di aprire una libreria avevo ventisette anni. Intendiamoci, non una di quelle enormi da centro commerciale dove riusciresti ad avere buone probabilità di reperire anche la prima edizione originale di Ben-Hur.
La mia si trovava nella località di mare dove abitavo, adiacente ad uno stabilimento balneare e aveva molte meno pretese: era quadrata e molto piccola, talmente piccola che non necessitava delle targhette che suddividono gli scaffali a seconda del genere, poiché con un rapido sguardo la si poteva osservare interamente. Nasceva con l'ambizione, forse condivisa da chiunque decida di aprire una libreria, di voler soddisfare i bisogni di lettura delle persone della zona in cui vivevo, tentando di trovare un giusto compromesso fra l'apparato commerciale e quello più di nicchia.
In ogni caso, la scelta era nata da un desiderio.
Ho sempre amato leggere; la lettura è parte integrante della mia vita da ancora prima che i libri diventassero l'oggetto del mio lavoro. Ciononostante, non ne ho mai fatto un abuso, cosa che considero anche controproducente. La lettura mi ha rapito anche e soprattutto per le sue pause, per la sua necessità di sentirsi certe volte libera, di non volersi legare a niente e a nessuno, per la sua limpida capacità di adattarsi alle situazioni della vita, senza che le si debba spiegare niente.
In buona sostanza, non mi sono mai obbligato ad aprire un romanzo solo per un "dovere" morale nei suoi confronti o nei confronti dei soldi spesi per comprarlo: i periodi attraverso i quali una persona decide di scandire la propria vita assumono per ciascuno nomi, caratteristiche e forme diverse e influiscono anche sul proprio rapporto con la lettura.
In virtù di questo, ho passato diversi anni senza coltivare questo rapporto, anche se probabilmente nel mio animo il seme c'era già, magari cresciuto in una piccola pianta che aspettava solo di essere curata e innaffiata – Dio benedica Il piccolo principe –. Quel lasso di tempo, che è corrisposto con il periodo universitario, però, non l'ho vissuto da solo. Tentai di riproporre a modo mio la magia che la lettura era riuscita a regalarmi negli anni precedenti, per ringraziarla del tempo trascorso insieme, in trepidante attesa di un suo ritorno.
Iniziai, dunque, a scrivere, ma in modo particolare. Innanzitutto, esclusi la prosa: non mi sentivo pronto ad essere relegato negli schemi della narrativa – non che adesso lo sia, ma quantomeno mi sento più istintivamente maturo –, anche se poi, crescendo, mi sono reso conto del fatto che il concetto di "schema" lo creiamo noi per rinchiudere l'inspiegabile nei recinti del comprensibile anche attraverso strumenti distanti anni luce dall'idea stessa di schematicità.
È ciò che è venuto più spontaneo fare a me, nella forma della poesia, di per sé disincantata e distante da ogni tradizionale struttura razionale.
L'"amico" irrazionale che più mi ha accompagnato in questo viaggio – e che ha influito anche sulla scelta di aprire una libreria – è stato l'Istinto. Ho sempre scritto seguendo l'istinto, senza mai rileggere o correggere le parole che decidevo di usare, come se stessi piantando sul terreno dei pilastri impossibili da smuovere.
Ecco cosa sono per me le parole, pilastri. È attraverso i pilastri che si costruisce un edificio, allo stesso modo di come grazie alle parole si ergono i sentimenti, le relazioni, i dolori, le felicità, insomma gli edifici della vita.
La mia poesia, quindi, era costituita di pilastri istintivi, giovanili, che non avevano alcuna pretesa di spiegare il funzionamento del mondo, al massimo ci provavano a farlo col mio. Quando riuscii a mettere in piedi il progetto della libreria, la poesia non era andata via da me – non credo succederà mai – perché era finita col diventare una necessità, un bisogno estremo di essere circondato di parole.
E quale migliore decisione se non lasciarsi accerchiare dai racconti spasmodici di Bukowski, dai possenti ululati di Jules Verne o dal dolce canto di Catullo, per rispondere a questa esigenza?
Appena quel giorno arrivai in negozio, accadde ciò che accadeva sempre: l'odore inebriante della carta stampata mi riempì le narici e attivò dei connettori cerebrali che fondendosi inspiegabilmente con il profumo magico che mi circondava, mi portarono a rivivere questi pensieri.
Accesi le luci, controllai che la cassa fosse a posto, diedi una rapida occhiata ai libri ordinati sui vari tavoli, alzai le saracinesche e finalmente aspettai.
Tutto comincia con un'attesa di solito.
Si attende il giorno in cui nasciamo.
Si attende di imparare a parlare, di crescere.
Si attende l'amore, l'amicizia, la morte.
L'insieme delle mie attese mi aveva portato su quello sgabello in quella libreria ad aspettare il primo cliente della giornata. In realtà, ero ancora inconsapevole di cosa io stessi realmente attendendo. Solo ora lo so, arrivati alla fine della Storia.
Ecco cosa attendevo.
Storie.
E anime senza nome pronte a raccontarmele, tutte diverse, come i piani che percorre un ascensore.
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Un vento di distanza
General FictionSimone è un libraio di trent'anni, ama il suo lavoro, ma si guarda allo specchio consapevole che l'equilibrio raggiunto dalla sua solitudine avrebbe bisogno di una rivoluzione. Qualche anno dopo aver pubblicato una raccolta di poesie, spinto dal des...