Sogno
Mentre osservavo nostalgico per l'ultima volta l'ambiente della stazione e i bozzoli umani intenti a seminare i propri ricordi sulla Terra, notai che del dolce vento che aveva spazzato il tappeto di foglie era rimasta una leggerissima eco, una scia quasi impercettibile, che rimase per qualche secondo nel vano dell'ascensore insieme a me, come una spruzzata di profumo che rinfresca l'aria circostante per pochi attimi. Poi, il rumore secco della chiusura automatica della porta tranciò il cordone ombelicale che mi legava a quella dimensione, permettendo solo ad un lembo di vento caldo di rimanermi vicino ancora un po', prima di essere inglobato nell'aria chiusa del vano come una goccia che entra a far parte dell'oceano. Passò qualche secondo di silenzio, in cui l'unico rumore era il rombo dell'aria pesante che sbatteva sull'esterno della porta, chiedendo disperatamente di entrare.
Nel frattempo, spostai l'occhio sul pannello e vidi che il quinto ed ultimo bottone della colonna di sinistra lampeggiava lentamente, mentre i primi quattro erano illuminati in modo fisso. Per non rischiare di dimenticare, come era accaduto per i precedenti ricordi, sfiorai il quinto bottone. La sensazione allucinogena si ripresentò e sentii che il ricordo della stazione venne incapsulato nell'archivio della mia memoria a lungo termine, come un nuovo salvataggio, la trascrizione di un file da aggiornare. Il processo terminò nell'istante prima che il vento smettesse di ululare fuori dall'ascensore, il quale nel frattempo si era messo in moto verso l'alto, allontanandomi definitivamente da quella memoria, come una bolla di sapone che cresce e quando è matura si stacca per sempre dalla bacchetta.
Quando l'ascensore si riaprì, stava piovendo.
Questa volta, il vento che colpì la mia pelle era leggero, ma fresco. Esitai ad uscire perché di fronte a me, in quello squarcio rettangolare che coincideva con il perimetro della porta dell'ascensore, si estendeva a perdita d'occhio una foresta immersa nella coltre silenziosa del buio della notte. Avanzai lentamente solo di un passo, quanto bastava per sporgermi dalla soglia, con il timore di svegliare bruscamente il sonno di qualcuno e tentai di attivare i miei sensi al massimo delle loro capacità. Il rumore pacifico della pioggia rilassava l'atmosfera; anche se ci fossero stati dei versi animaleschi, non li avrei sentiti in ogni caso. Oltre al suono, la pioggia emanava un dolce aroma di fresco e di bagnato che, assorbendosi sul terreno e sulle foglie, dava un effetto quasi trascendente, come se all'improvviso fossi stato catapultato all'interno di una poesia di D'Annunzio. Ciò che riuscivo invece a vedere era oggettivamente poco: la fioca luce della Luna che filtrava fra le chiome, non ancora del tutto sommersa dai nuvoloni del temporale, illuminava davanti a me un sentiero fangoso e ondulato. Ai lati intravedevo l'inizio di una lunga schiera di alberi disposti in fila come i soldati all'adunata del mattino, che schermavano il cuore del bosco, come se stessero custodendo il segreto più importante del mondo.
Non avevo nulla con cui proteggermi dalla pioggia, ma allo stesso tempo avevo ormai ben compreso che rimanere all'interno dell'ascensore aperto non avrebbe portato a nulla; la scena si sarebbe sbloccata solo con un mio intervento in quella dimensione. Il mio destino era vivere quei momenti attivamente, percepirli reali; non potevo in alcun modo modificare le condizioni di partenza del luogo in cui venivo catapultato, ma avevo solo il dovere di muovermi. Certo, avrei potuto almeno aspettare che smettesse di piovere, ma non ero neanche certo che ciò sarebbe avvenuto in tempi brevi, magari avrebbe piovuto ancora per ore. Mi convinsi che in quel momento la Natura volesse agire su di me attraverso la pioggia, senza che io potessi fare nulla per proteggermi, un lavaggio spirituale come rito di iniziazione.
Un rigido battesimo pensai ironicamente. Respirai a fondo ed uscii.
Non avevo con me una torcia per illuminare il percorso, per cui ogni passo in avanti aveva il peso di un'incudine. Sentivo sotto i piedi che il terreno non era affatto lineare e spesso mi imbattevo in radici aggrovigliate all'esterno del suolo a farmi da ostacolo; il rumore rilassante della pioggia veniva ritmicamente interrotto dal croccante suono delle foglie che calpestavo e ciò mi faceva sentire in colpa, come se stessi profanando la quiete di un luogo sacro. Per questo motivo non aumentai mai il passo, e in pochissimi minuti ogni parte del mio corpo fu fradicia d'acqua. Decisi di resistere, sperando di giungere il prima possibile ad un riparo, anche perché correre, per di più al buio, sarebbe stata una scelta illogica. La pioggia non solo non accennò a diminuire, ma aumentò leggermente di intensità, e con lei la mia angoscia.
Bastarono dieci minuti di camminata affinché la stanchezza di quella lenta tortura si mischiasse al panico e io cominciassi ad ansimare, infreddolito ed impaurito. Provai a voltarmi indietro, ma dell'ascensore ormai non si vedeva neanche l'ombra della luce lontana, solo rami, arbusti, foglie e tronchi che correvano in entrambi i lati.
E buio.
Un buio denso che aumentava a mano a mano che il temporale entrava nella scena del cielo; qualche secondo dopo, i primi tuoni che cominciarono a cantare una melodia angusta.
Poi, stremato e gocciolante, mi appoggiai per un attimo ad un albero e vidi davanti a me che il sentiero e i tronchi cominciavano ad allargarsi ai lati, lasciando progressivamente spazio ad una radura circolare, sgombra dalla vegetazione ed esposta interamente al volere del cielo. Mossi qualche passo in avanti e alzai lo sguardo sfidando la pioggia che mi bacchettava il viso: a poche centinaia di metri da me si ergeva un'enorme montagna, confine ultimo della radura e dell'intero bosco, unico elemento della terra in grado di avvicinarsi al ruggito del temporale senza paura, combattendolo con dignità.
Ai brividi profondi che sentivo sottopelle a causa della pioggia battente, si aggiunse la sensazione emotiva di chi si trova davanti a qualcosa di meraviglioso, che allo stesso tempo incute paura; era come trovarsi di fronte ad un gigante, un mostro fuoriuscito dal grembo della terra, possente e muscoloso, pronto a schiacciarmi in qualunque momento. In pochi secondi, seguii, con lo sguardo solcato dalla pioggia, l'andamento della montagna verso l'alto, finché non arrivai alla cima e lì vidi passare nel cielo tetro un uccello, che controllava fiero il suo volo fra gli scoppi del temporale come un marinaio nella tempesta. Impossibile per me riconoscere altri dettagli: di qualsiasi colore fosse stato, la notte lo aveva reso suo figlio ed era troppo distante anche per immaginarne le dimensioni.
Quella creatura così distante ed estranea da me mi fece scordare del tempo, del freddo nelle ossa, del mio corpo gocciolante e impaurito. Mi accompagnò, invece, nella memoria dell'incontro con il gabbiano che avevo avuto qualche tempo prima, nel ricordo di quell'uccello che aveva scoperto l'altro volto del cielo, anzi che sembrava viverne uno diverso. Pensai che ognuno di loro si trovasse nel proprio giusto luogo: non so quanto coraggio il gabbiano avrebbe dimostrato nell'affrontare la tempesta che avevo di fronte, lui era più un tipo da poesia elegante, istintiva e delicata. Non potevo neanche essere certo che questa creatura senza nome né viso, che vedevo sorvegliare la cima della montagna, potesse mostrare la forza poetica necessaria per affrontare un viaggio in un cielo brillante di luce, dove vengono concesse tutte le direzioni, ma soltanto una delle traiettorie invisibili si rivela quella giusta. Si mostrava più a suo agio nel percorso brancolante del buio.
Dopo qualche secondo, l'uccello cavalcò il rombo di un tuono e terminò la sua ronda allontanandosi leggiadro come il più abile dei danzatori. D'istinto mi coprii gli occhi per proteggermi dal boato e quando li riaprii, mi accorsi che la temporanea luce proiettata nella radura aveva illuminato davanti a me una cavità alla base della montagna, non nascosta dai tronchi degli alberi. Senza pensarci due volte, corsi in quella direzione, cercando in tutti i modi di resistere al vento che ormai si era fatto respiro. Era come se, sparito l'uccello, la sensazione di pesantezza del mio corpo bagnato fosse tornata a farsi sentire dalla punta dei piedi fino all'ultimo capello e mi avvertisse che ripararsi poteva essere una buona idea, nonostante fossi fradicio già da un po'.
Giunsi alla soglia della grotta e mi riparai, ancora ansimante dalla corsa. Quando risollevai lo sguardo si profilò davanti a me lo stesso profondo buio che avevo visto poco prima dall'ascensore: un'oscurità a perdita d'occhio che non faceva intuire né la direzione né la profondità della spelonca. Non pensai neanche per un secondo alla possibilità di addentrarmi in quelle tenebre sconosciute; quindi, mi sedetti per terra e appoggiai la schiena contro una delle pareti, mantenendomi sempre vicino all'entrata per godere di quel po' di chiarore lunare che illuminava l'esterno. Respirai a fondo diverse volte mentre le ultime gocce di pioggia mi scorrevano sulle parti del corpo scoperte. Allungai la mano e mi tolsi a turno le scarpe per svuotarle dal fiume d'acqua che era entrato all'interno e che le aveva rese quasi inutilizzabili. Mi scompigliai i capelli per scrollare la pioggia in eccesso e mi tolsi la maglietta per qualche secondo, resistendo al freddo, per strizzarla e non lasciarla come una spugna imbevuta d'acqua. Me la infilai di nuovo, appoggiai la nuca al freddo muro di pietra alle mie spalle, allungai le gambe e chiusi gli occhi.
Cosa ci faccio qui stavolta...
Esclusi il rapido e costante scrosciare della pioggia e gli improvvisi rombi dei tuoni, quel luogo era infestato solo dal silenzio, in un'atmosfera di suspense tipica dei film dell'orrore. Trascorsi qualche minuto così, facendomi cullare dal fischio del vento e inspirando a fondo l'odore dell'erba fresca, nell'attesa che il temporale si placasse. Poi, aprii lentamente gli occhi, mi guardai attorno e raccolsi dal terriccio secco qualche sassolino; mi voltai a sinistra verso l'interno oscuro della caverna e ne lanciai qualcuno, tendendo in avanti le orecchie per tentare di immaginarmi quanto fosse profondo. Ci fu una piccola eco di rimbalzi sul terreno per i primi sassolini, mentre per l'ultimo, quello che lanciai con più forza, sentii un leggero colpo a mezza altezza giungere dopo qualche secondo e poi un suono ripetuto di rimbalzi tornare indietro, segno che avevo raggiunto il fondo della caverna, che ipotizzai essere a qualche metro da me. Non ebbi neanche il tempo di tornare ad osservare la radura fuori, che una voce parlò dall'oscurità.
− Hai intenzione di lanciarne altri?
Era la voce più profonda che io avessi mai sentito, un gorgoglìo gutturale e cavernoso, simile al suono di un motore appena acceso.
Sgranai gli occhi e il cuore cominciò a battermi forte dall'ansia.
− S-scusa? − tentennai.
− Ti ho chiesto se hai intenzione di lanciarne altri, così mi sposto. Non vorrei rischiare di farmi male.
Parlava serenamente, come farebbe un saggio ad un proprio allievo, senza rabbia o seccatura.
Guardai impassibile l'interno della grotta senza sapere cosa rispondere. Deglutii e da seduto strisciai fino ad avvicinarmi ancora di più all'ingresso, ma rimanendo riparato.
− Va bene dai, ho capito, − disse la voce.
Dopodiché, cominciai a sentire una serie di tonfi sordi, come di un corpo pesante che si sposta lentamente, il suono di uno scuotimento ed un progressivo rumore di passi cauti in avvicinamento. Finché poi non si staccò dal buio informe dell'interno una figura larga: si fermò in un punto in cui lo spicchio di luce lunare che entrava dall'ingresso rivelava solo la parte bassa della faccia, la bocca e soprattutto i denti. Lo riconobbi subito, già nella sua ombra valoroso.
Poi il leone avanzò e uscì nella zona in cui la poca luce metteva in risalto tutto il suo corpo. Sembrava avesse scelto volontariamente di fermarsi per un momento nel punto in cui si intravedevano solamente i denti e le unghie delle zampe, come se volesse farmi metabolizzare la notizia di quell'incontro in modo lento e ragionato, prima di venir fuori in tutta la sua enorme possenza. In quel momento, quasi poeticamente, un lampo illuminò per un secondo le iridi giallo oro della bestia e le sue minuscole pupille, biglie nere sommerse in un deserto di sabbia.
Per un istante mi pietrificai terrorizzato, poi cominciai a muovere confusamente le gambe in preda all'ansia, ruotai convulsamente la faccia verso l'esterno della grotta e feci per alzarmi e scappare fra i brividi.
− Perché vuoi scappare? Hai paura? − mi chiese mentre non smetteva di fissare il cielo di fronte a lui a fauci serrate. Mi voltai verso di lui ancora tremante e con la mano a mezz'aria, ma non riuscii a dire niente. Come risposta deglutii.
− Secondo te se ti avessi voluto uccidere, avrei aspettato tutto questo tempo?
Fu in quel momento che il suo sguardo si posò su di me, con la stessa forza di un fulmine che squarcia il tronco di un albero.
− Hai perso la parola? − mi chiese quasi scherzosamente.
Poi avanzò nella luce, fece qualche passo avanti e indietro per capire come posizionarsi e si distese di fronte a me al confine con l'esterno della grotta, facendo ondeggiare la sua fluente coda con elegante onore. In quei secondi ebbi modo di osservarlo meglio: il manto dorato da cui era avvolto sembrava uscito dalla più prestigiosa delle sartorie, lucido come il velluto; una foltissima criniera marrone scuro gli circondava la faccia e ricadeva verso il basso fino a ricoprirgli quasi interamente le zampe anteriori, come il copricapo che si indossa ad una cerimonia; le unghie nere e sporgenti dei suoi arti avevano il fascino malvagio dei guanti di seta di un maggiordomo assassino e, quando per un momento sbadigliò, osservai in tutta la loro spaventosa magnificenza le armi del delitto perfetto, zanne bianche come il latte, pure e velenose.
Scrollò la criniera e tornò a fissarmi. Deglutii di terrore.
− Allora? Sei diventato muto all'improvviso?
La confidenza con la quale ironicamente mi prendeva in giro era quasi comica. Prese a leccarsi la zampa sinistra.
− Ti rendi conto del paradosso? Sto parlando più io di te, che sei una creatura costruita e attrezzata per questo, − poi fece una smorfia con la bocca. − È incredibile che quando un essere umano sente addosso il sentimento della paura, persino le sue caratteristiche innate si bloccano all'improvviso.
Dopo quella frase, non so bene per quale motivo, abbassai la mano e il tremolio delle ossa cominciò ad attenuarsi.
− T-tu come fai a parlare? − chiesi con un filo di voce mentre sistemavo la schiena contro la parete di roccia con lentezza, come se mi trovassi in un campo minato.
Il leone sorrise; poco dopo, l'ennesimo lampo di tuono fece la sua comparsa e ci ricordò che non eravamo affatto soli e che il temporale ci stava in qualche modo osservando.
− Pensavo avessi domande meno banali da farmi, − mi rispose continuando a leccarsi la zampa.
Ad ogni parola ironica con la quale mi rispondeva la bestia, mi tranquillizzavo un pochino di più, perché se avessi chiuso gli occhi avrei avuto la reale sensazione di stare parlando con un altro essere umano.
− U-un leone che parla per te è un fatto banale?
Mi maledissi subito per il mio tono canzonatorio: ci mancava soltanto che lo facessi arrabbiare e avrei presto firmato la mia condanna.
Il leone, invece, sorrise.
− Tanto quanto la pioggia in un temporale, − disse e con un cenno della testa mi indicò la radura.
− Allora vuol dire che sono su un pianeta diverso dal mio, perché lì gli animali non parlano.
− Dipende cosa intendi tu per parlare.
Corrugai la fronte, confuso dalla sua obiezione. La bestia dovette capirlo e riformulò la domanda.
− Cosa significa per te parlare?
− Immagino fare quello che stiamo facendo ora, anche se continuo a trovarlo inspiegabile, − risposi poco convinto.
Tutto mi sarei aspettato dalla vita, tranne che una bestia di quel genere scuotesse il capo per dirmi che non era d'accordo con le mie parole.
− La conosci l'etimologia di questa parola? − insistette.
− Io no, ma dovrei credere che tu la sappia, giusto?
Il leone ammiccò.
− Secondo me tu mi sottovaluti, − disse.
D'istinto mi spuntò un sorriso isterico.
− Ti assicuro che penso esattamente il contrario di quello che hai appena detto; sono solo molto confuso, sai com'è, ritrovarsi durante un temporale in una grotta con un leone che ti spunta all'improvviso non credo sia una cosa così normale.
La bestia continuava a fissarmi compiaciuta.
− Parlare vuol dire dare un insegnamento, non esprimersi a voce. E quando si insegna qualcosa a qualcuno, lo si può fare in mille modi. Guarda fuori, per esempio.
Non capivo cosa volesse farmi fare, ma mi fidai, non credo avessi molte alternative. Poi continuò:
− Non vedi niente di particolare?
Provai a concentrarmi per mostrare alla bestia di essere all'altezza di ciò che mi stava dicendo, come fa un alunno quando non conosce una risposta e il professore gli dà degli indizi per fargliela capire. Ma sinceramente, oltre al fatto che la pioggia e il vento erano leggermente diminuiti di intensità, non notavo particolari differenze. Osservai il punto in cui il sentiero si era allargato per dare forma alla radura, ma anche in quel caso mi sembrava di vedere lo stesso profondo buio che avevo lasciato poco prima.
Il leone percepì la mia difficoltà, ma mentre fece per parlare, fu interrotto dallo squarcio violento di un fulmine, ennesimo ma più potente dei precedenti.
− Ora l'hai visto? È successo di nuovo, − disse poi.
Mi voltai verso di lui.
− Il fulmine?
Il leone annuì.
− I fulmini insegnano la forza molto più di quanto possa essere in grado di fare io. Oltretutto, come vedi lo fanno senza usare la voce come invece sto facendo con te. L'ottimo insegnante è quello che educa con i gesti, non con i monologhi.
La sua spiegazione mi mandò ancora più in confusione. Ripensai istintivamente agli altri incontri che avevo avuto fino a quel momento: Roy, la Morte, Prof, il controllore e l'acrobata... ognuno di loro effettivamente mi aveva illuminato un punto d'osservazione diverso da quello che adottavo io nei confronti delle cose. Ma lo avevano fatto parlando, e anche tanto! Le conversazioni avute con loro non erano mai state banali; anzi, ammetto di essermi sentito nuovo dopo ognuna di esse, anche se con un fardello di domande sempre più grosso da portare con me. Ora, invece, stavo assistendo al più grande dei paradossi: l'animale che comunemente viene definito "il re della foresta", la bestia simbolo di forza e possenza per antonomasia, stava smontando questa credenza.
− Perché dici questo? − gli chiesi.
− Perché credo abbia un fondo di verità. È il fulmine che ha il coraggio di venire fuori per far sentire forte la sua voce. Se ci pensi il temporale è un fenomeno che ha un andamento lineare, come se seguisse dei binari già predisposti: le nuvole si ammassano vicine come carrozze di uno stesso treno e si spostano insieme in un'unica direzione, finché non arrivano a destinazione e il cielo decide di dissolverle. E nel mentre scaricano giù la pioggia a ritmo regolare, come le ruote su una rotaia. Il tutto sarebbe abbastanza monotono se solo non ci fossero i fulmini a cambiare le cose, non credi?
Poi si voltò verso di me e sorrise. Soffrivo ancora un po' il suo sguardo, quindi tentennai nel sostenerlo.
− Non capisco cosa c'entra tutto questo con te... E poi io ho sempre pensato che un fulmine facesse parte di un temporale, non che fosse un elemento estraneo.
− Potrebbe anche essere, ma non ti è mai capitato di assistere a dei temporali senza fulmini?
Riflettei per un istante e poi annuii.
− Sì, però quando ne vedo uno lo riconduco sempre alla stessa causa. Non mi stupisco che sia qualcosa di così eccezionale, ma a questo punto forse ho sempre sbagliato approccio.
La bestia aprì le fauci e rise di gusto.
− No, amico mio, non si tratta di sbagliare. Sono solo modi diversi di vedere le cose; d'altronde, siamo creature diverse, credo sia una differenza naturale. Io comunque penso che qualcosa di eccezionale, in fondo, ce l'abbia. Ci vedo una coraggiosa rabbia nel modo che ha di mostrarsi, una forza che oltrepassa i recinti della realtà e la sconquassa un po' per qualche secondo. Il suo è uno squarcio di luce in fondo, in cui per un attimo il mondo sembra risvegliato bruscamente dal suo torpore, come se ti ribaltassero sulla schiena un secchio d'acqua ghiacciata.
Poi mi guardò e aggiunse: − Credo che fra voi umani sia una tattica comune per fare uno scherzo a qualcuno, no?
Abbassai lo sguardo, sorrisi e annuii.
− Comunque, non posso credere che tu ti senta meno forte di un qualcosa che può spaventare al massimo per qualche secondo... Prendi me: già solo il vederti sbucare dal fondo di questa grotta mi ha letteralmente paralizzato. Qualunque persona sulla faccia del pianeta comincerebbe a scappare terrorizzata se ti vedesse in lontananza. C'è chi, invece, dei fulmini spesso non si accorge nemmeno.
La bestia sogghignò.
− È proprio questo il punto. Se non ti accorgi di una cosa è perché la dai per scontata e non ti sembra importante, ma se ci rifletti un attimo, sono molto più scontato io nel mondo rispetto ad un fulmine. Io sono stato generato sulla Terra come te, la mia struttura fisica è stata predisposta prima che io nascessi e mi è stata affidata; io non posso scegliere quando e se farmi vedere; io esisto, punto. Non posso uscire e rientrare dalla realtà quando e come voglio; sono una consuetudine del mondo tanto quanto lo siete voi uomini. Invece, la Natura non ha mai nulla di preconfezionato, è sempre imprevedibile. Il fulmine ha dei gradi di libertà superiori ai nostri e decide di sfruttarli per farci capire che andare oltre non è sempre qualcosa di cui aver terrore. Nella vostra società, ad esempio, vi siete imposti delle regole per convivere fra voi esemplari della stessa specie. In Natura non esistono cose di questo tipo e il fulmine ogni volta ci suggerisce che non sempre disobbedire è la scelta sbagliata.
Detto ciò, il leone si alzò lentamente in tutta la sua maestosità, si posizionò al bordo dell'uscita facendo ondeggiare con fascino la coda, socchiuse gli occhi in direzione del cielo e con tono languido aggiunse: − E poi... è la cosa più elegante che io abbia mai visto.
Nell'istante in cui parlò, un fulmine squarciò il cielo e illuminò il suo volto orgoglioso.
Lo aveva detto come se stesse osservando la più bella meraviglia del mondo; il suo sguardo era perso in uno stato di sublime stupore che forse non avrei mai potuto comprendere fino in fondo. Spinto da un'estasi profonda, il leone camminò verso il centro della radura con lo sguardo fisso verso l'alto. Ogni singola parte del suo corpo cominciò velocemente a bagnarsi, ad impreziosirsi di un sapore fresco di muschio e terra; sembrò trasfigurarsi in un'altra creatura. Ora che lo osservavo completamente fradicio, intuivo cosa avesse voluto dirmi fino a quel momento: le gocce di pioggia avevano sgonfiato il volume di pelo della criniera e del busto, gli elementi principali che lo rendevano la creatura orgogliosa e superba conosciuta da tutti. In quel momento, il suo corpo mi appariva smilzo, quasi indifeso e incapace di proteggersi dalle intemperie del cielo. In realtà, quella era la sua viscerale sostanza, lasciata libera, scomposta e pura al volere della Natura. Era come se si stesse lentamente abbandonando alla verità, come se stesse disobbedendo con eleganza alle convinzioni di chi lo considerava forte.
Anzi, il più forte.
Poi all'improvviso ruggì, e nel ruggito sentii l'essenza intera di un pianto. Quando terminò il suo lungo richiamo, come un lupo che urla il suo amore alla Luna, un fulmine divampò alle spalle del leone, proiettando per un secondo la sua ombra sul terreno. Fu in quel momento che la bestia gonfiò il petto e rivolse sorridente lo sguardo verso di me, ancora seduto nella grotta, incapace di compiere qualsiasi gesto. Quando parlò, la pioggia risuonò come la colonna sonora perfetta che annuncia il finale.
− Non fare come gli altri della tua specie, caro amico mio, − disse. − Quando ti senti disorientato, non cercare la direzione nelle stelle. Ricerca il fulmine, lui sì che saprà indicarti la via giusta. E sii coraggioso, come ci insegna lui.
Detto ciò, la bestia si voltò verso un lato del bosco, esitò un istante e poi cominciò a correre, addentrandosi in poco tempo nel folto cuore della foresta e sparendo completamente alla mia vista. Mi alzai frettolosamente e tentai di chiamarlo, senza successo: la sua trasfigurazione nella Natura era iniziata e io non potevo fermare il processo.
Avanzai a passo lento verso il centro della radura, dove fino a poco prima si trovava il leone: a questo punto la pioggia non mi faceva più paura, non aveva più importanza che il volume del mio corpo si gonfiasse d'acqua nelle scarpe e nella maglietta, perché dentro mi sentivo nudo, aperto, scomposto e non più infreddolito. Mentre fissavo intensamente la direzione in cui era scomparso il leone, alle mie spalle sentii irrompere un fulmine; mi voltai e lo vidi abbattersi come una ghigliottina sulla parete della montagna sopra la grotta. Il boato fu indescrivibile, come se le mie orecchie venissero trapanate da mille pezzi di vetro contemporaneamente; sentii anche un forte terremoto, che mi costrinse a correre verso il bosco e ripararmi dietro il primo degli alberi; lo squarcio fu più potente degli altri e dovetti coprirmi gli occhi per resistere alla forte luce.
Per un attimo pensai di stare assistendo alla fine del mondo, ma dopo qualche minuto tutto si placò. Aprii gli occhi e il temporale non c'era più: un Sole alto al centro della radura mi salutava con il suo calore quasi estivo e mi presentava i colori del mondo nella loro forma naturale. Tutto era calmo, avvolto da una strana pace; l'unico flebile rumore era quello delle gocce d'acqua che cadevano dal mio corpo e bagnavano il terreno su cui camminavo.
Tornai al centro della radura e osservai la grotta per capire se il fulmine avesse lasciato dei segni dopo il suo passaggio: tutto era identico a prima, anche se nell'attimo della folgore sembrava avesse distrutto qualsiasi cosa. Poi, esattamente come avevo fatto una volta messo piede nella radura, seguii l'andamento della montagna verso l'alto e lì sbarrai gli occhi.
Sopra la caverna, come una targhetta posta sulla cuccia di un cane si leggeva il nome Ulisse e poco sopra il fulmine aveva inciso queste parole:Devi essere
il fulmine
che sfugge
alle leggi
della fisica.
Quello che
ruggisce scomodo
quando tutto il cielo
ha deciso di tacere.
Quello che
si formula
in potenza
anche se lassù
gli hanno consigliato
di essere più delicato.
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Un vento di distanza
General FictionSimone è un libraio di trent'anni, ama il suo lavoro, ma si guarda allo specchio consapevole che l'equilibrio raggiunto dalla sua solitudine avrebbe bisogno di una rivoluzione. Qualche anno dopo aver pubblicato una raccolta di poesie, spinto dal des...