1. RITORNARE IN FORMA

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BEA

Luglio

È un disastro. Nel vero senso della parola. Se non riuscirò a mettermi in forma per l'inizio del campionato, la coach mi farà stare in panchina, e che io sappia, non esiste nessuna giocatrice di hockey che ha avuto accesso alle nazionali di hockey femminili, dalla panchina.

Ho strafatto come sempre. Mi sono allenata duramente negli scorsi anni. Abbiamo anche vinto il campionato femminile universitario, e dopo decenni, siamo riusciti a regalare all'università il posto che gli spetta.

Invece ora, l'unica cosa che vedo mentre mi alleno sul ghiaccio, è il mio sogno sgretolarsi per colpa dell'infortunio.

Lo sento: il dolore, il panico, la fitta che provo ogni qualvolta effettuo un tiro colpendo il puck, gli incoraggiamenti di mio nonno dalla panchina, che cerca in qualche modo di aiutarmi, e mio padre che si mette le mani in faccia perché secondo lui è una pessima idea riprendere gli allenamenti dopo poco tempo dall'intervento.

Be' non è affatto poco tempo: sono passati due mesi e restare ferma a guardare le altre ragazze darsi da fare prima dell'inizio dell'anno scolastico, è un pugno al cuore. Specialmente se non posso essere d'aiuto alla squadra per le prossime amichevoli.

È un disastro, ma l'hockey è tutta la mia vita.

Avevo cinque anni quando a natale ricevetti il mio primo paio di pattini. All'epoca pensavo che Babbo Natale si fosse sbagliato, perché avevo chiesto di gran lunga una di quelle pistole giocattolo che Shawn il maggiore dei miei due fratelli, usava spesso per punzecchiarmi.

E invece nonno ha interferito e ha provato a indottrinarmi la pillola degli Evans, quella che a quanto pare nessuno è riuscito a farsi andare bene.

Nessuno tranne me.

I miei genitori le hanno provate tutte, prima di cedere e iscrivermi a hockey. Ho fatto danza, karate, piscina, calcio e infine pattinaggio artistico. Quest'ultimo era diventato una vera e propria passione, prima di scoprire che non era la parte artistica che mi interessava, ma era muovermi sul ghiaccio e provare l'adrenalina che ogni giocatrice percepisce ad ogni partita. Così sono arrivata a prendere le redini dell'eredità di famiglia: l'hockey.

Mio nonno, Brandon Evans è stato una vera e propria leggenda dell'hockey, quasi paragonato a Gretzky, Coffey e compagnia bella. Ha portato la Silverleaf alla vittoria della sua prima Frozen Four quando all'epoca non si chiamava nemmeno così e vinto 3 Stanley Cup di fila con i Vancouver Canucks. Perfino l'università come gesto di gratitudine ha voluto ammettermi, nonostante la mia media scolastica non fosse delle migliori. Grazie, nonno!

Dei due figli maschi che ha avuto, nessuno ha voluto provare la via dell'hockey: mio padre lo ama, ma preferisce solo guardarlo in televisione, e mio zio lo trova inopportuno e troppo fisico.

Così le sgridate sul ghiaccio me le prendo tutte io. «Metti più grinta con quei tiri, Bee!»

«Puoi non darle ulteriori stimoli? Questa è una pessima idea», gli rimprovera papà, incrociando le braccia. «Dovrebbe riposare.»

Mando gli ultimi due puck in rete e mi fermo quando sento un leggero formicolio alla spalla destra.

«Ti fa male?» Domanda nonno, avvicinandosi e cercando di controllare il braccio. Borbotto qualcosa sottovoce, quando tenta di massaggiarmi la spalla e lui piega leggermente il viso in comprensione: «Non sforziamolo ulteriormente, okay? Oggi sei stata fantastica...»

«Devo riuscire a tornare in forma.»

«Siamo dalle sei di stamattina sul ghiaccio, Bee.»

Alzo lo sguardo al grande orologio dei segna punti e sospiro. Sono le dieci e mezza, e nonostante mi senta dolorante e a pezzi, mi sembra di non aver concluso niente. Il dolore resta.

THE PUCK PROMISEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora