4.Regalo di Natale

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KNOX


28 Dicembre

Alle sette e mezza finiamo una noiosa cena con i parenti a casa dei miei, in cui le uniche cose buone sono state il cibo della mamma, le poche volte in cui Julian ha accennato sorrisi per le mie scenette
da giullare e il fatto che alle sei i bambini di mio cugino Daniel già dormivano.
È venuto a trovarci con la moglie, i due gemelli, fratello e genitori, per trascorrere insieme il Natale. Siccome ripartono domani, la mamma ci ha obbligati a un’altra cena con loro, per salutarli.
H

o dovuto cedere, precisando che al massimo alle otto saremmo andati via perché avevamo un impegno con gli amici.
Appena esco da casa, dopo aver salutato tutti, mi sento subito più leggero.
Dietro di me, avverto la presenza di mio fratello e mia sorella e mi rendo conto che il motivo per cui mi sto godendo le vacanze è che ho molto tempo da trascorrere in loro compagnia. Per quanto ami il mio lavoro, ci sono periodi di piena in cui resto in officina dalla mattina alla sera e quando torno a
casa ho a malapena la forza di farmi la doccia e mangiare qualcosa, prima di crollare a letto.
In alcune occasioni, dimentico persino di scrivere messaggi la sera, per sapere come stanno, com’è andata la loro giornata.
Per anni, sia Julian che Alison, mi hanno fatto sentire un caso umano perché convinti che fossi esagerato nei loro confronti, ma quando ho conosciuto Aiden, ho approfittato per rinfacciare tutte le critiche che avevano mosso contro di me.
Perché Aiden che tormentava René ogni giorno era dolcissimo, mentre io ero una rottura di palle?
Ora non si lamentano più e io approfitto di ogni occasione per contattarli o vederli, perché sono la mia famiglia, perché ho bisogno della loro presenza, del loro calore, tanto quanto loro hanno bisogno di me.
O almeno, così ho sempre creduto, fino a qualche tempo fa.
Vedere Julian con Aiden… beh, è stato un risveglio, sotto quel punto di vista.
Anche ora, osservandolo mentre sale in macchina, noto il velo calato sul suo sguardo, scorgo il dolore che c’è nascosto dietro. Un bisogno che non associa più a me, a una protezione che una volta
potevo fornirgli contro tutte le ferite. Ha il cuore spezzato e io non sono in grado di rimetterlo insieme.
È la prima volta che sono consapevole di non essere il rimedio alle cose storte della sua vita, è la prima volta in cui mi sento inutile.
Quindi, faccio le uniche cose che so ancora fare.
Dispenso battute anche durante il tragitto, alleggerisco le conversazioni e strappo a Julian più sorrisi possibili. Soprattutto perché questa sera ha un impegno improrogabile con Noah e spero di farcelo arrivare con meno pesi nel petto e più pensieri confortevoli in testa.
Sono stato io a spingerli a un incontro e questa è la serata giusta, almeno a Capodanno potremmo festeggiare senza la tensione nervosa che aleggia tra loro, come un filo scoperto che potrebbe
provocare un corto circuito. Magari non si risolverà con una sola chiacchierata, ma potrebbe essere un inizio.
Arriviamo al pub alle nove e dieci e troviamo gli altri già seduti al solito tavolo.
I miei occhi vengono calamitati da Noah, come fanno di solito quando ci troviamo nella stessa stanza.
Mi sembra naturale controllare che stia bene, studiare la sua espressione per capire, ancor prima di parlare, se ha avuto una buona o una cattiva giornata.
Dalla contrazione della mascella, direi che l’ansia lo sta divorando.
È da ieri che mi maledice per via di questo incontro, ma non capisco perché non possa affrontarlo come un qualsiasi altro litigio avuto con Julian in passato.
Ok, questo non è un litigio, ma ha comunque provocato delle crepe nel loro rapporto e tutto ciò che serve è trovare la colla giusta per far aderire ancora tutti i pezzi, in maniera ancora più resistente
di prima.
I rapporti a volte subiscono duri colpi, soprattutto le amicizie, ma la volontà di recuperarli e l’affetto reciproco, possono fare da nuove fondamenta per una struttura che niente e nessuno potrà più scardinare.
Mi auguro che tra Julian e Noah vada così, ci spero con tutto il cuore.
«Ciao» dice mio fratello, puntando lo sguardo proprio sul suo amico.
Noah si alza subito, deve essere impaziente di affrontare la questione, si capiva già dal movimento convulso delle gambe, i piedi che battevano sul pavimento come se fosse vittima dell’assalto di un intero formicaio.
Julian indica la porta senza aggiungere altro e Noah lo segue.
Spariscono al di fuori della nostra visuale e a me e Alison non resta altro che accomodarci insieme a Sofia e Katy.
«Come sono andate le feste?» domando, mentre cerco di intercettare il cameriere.
«Tutto bene. I parenti italiani della mamma sono venuti da noi e abbiamo mangiato delizie a non finire. Alcuni prodotti tipici che ci hanno regalato sono ancora intatti, ve li farò assaggiare a
Capodanno» racconta Sofia.
«Ci sono anche quei meravigliosi cerchietti salati che adoro?»
«I taralli, dici?»
«Oh, sì. Proprio quelli!».
«Te li porterò, Katy. Stai tranquilla».
Davanti alla faccia estasiata della ragazza, scoppio a ridere.
Mentre sbatte le ciglia come una gattina per mostrare a Sofia il proprio entusiasmo, la osservo.
Ha i capelli castano chiaro raccolti in una coda, la pelle candida è imporporata sugli zigomi, forse per via del caldo all’interno del locale.
Il taglio allungato degli occhi le dona un aspetto da cerbiatta che si sposa con l’atteggiamento delicato e le smorfie curiose delle sue labbra morbide. Sembra uscita da un fumetto.
È molto bella, questo è certo.
Ha un corpo minuto, braccia e gambe sottili, curve quasi inesistenti. È diversa dalle donne formose che frequento di solito, eppure non meno degna di nota; lo sguardo curioso che mi rivolge ogni
volta che ci vediamo accende in me la volontà di conoscerla in modo più approfondito.
In tutti i sensi.
«A te com’è andata?» le chiedo.
Scrolla le spalle. «Durante la sera della vigilia, fratelli e cugini si sono messi a giocare a carte. A me non piace, quindi alle dieci mi sono addormentata sul divano. Mi hanno svegliata a mezzanotte per brindare insieme e augurarci buon Natale, ma per farmi uno scherzo mi hanno versato un bicchiere di whisky al posto dello spumante e mi hanno obbligato a mandarlo giù tutto. Sono crollata dopo neanche dieci minuti e la mattina dopo ho preso due aspirine».
Non posso trattenermi di fronte a una scena tanto esilarante.
Rido di gusto, finché mia sorella non
mi tira una gomitata nelle costole.
«Non è carino» mi sgrida. «Kat, i tuoi fratelli sono proprio diabolici».
«Mio Dio, non ne hai idea».
È il turno di Alison, che inizia a raccontare i dettagli delle nostre giornate in compagnia dei parenti, includendo anche episodi extra, accaduti quando io e Julian non eravamo presenti.
Ci siamo fermati a dormire solo la sera della vigilia, perché nostra madre ci ha vietato di andare via a quell’ora e dopo
aver bevuto tutto quell’alcol, ma nella tarda mattinata del giorno di Natale, ho chiesto a Julian di inventarsi una scusa per portarci via.
Mentre la voce di mia sorella intrattiene le due ragazze, il cameriere raggiunge il nostro tavolo per prendere le
ordinazioni.
Abbiamo scelto anche per Noah e Julian, ma quando le bibite vengono servite, loro non sono ancora rientrati.
Controllo lo schermo del telefono: è passata mezz’ora.
Dovrei iniziare a preoccuparmi?
Le dita di Alison si posano sul mio braccio, tirando giù la mano che non mi ero accorto di aver portato alla bocca. «La smetti di mangiucchiarti le unghie? Che hai?».
Non lo so.
«Niente. Sto riflettendo su Capodanno».
«Con questa agitazione? Wow. Ci tieni proprio un sacco».
Sono credibile come una banconota falsa.
É che non posso rimuginare sui motivi per cui sono sulle spine, sulla sensazione strisciante che si insinua tra i miei organi, perché non ha senso.
Voglio che Julian e Noah risolvano le questioni in sospeso, voglio che l’amicizia torni com’era prima e che entrambi tirino un sospiro di sollievo. Voglio tirarlo anche io.
«Staremo tutti a casa dei miei. Sono fuori per tre giorni, quindi, come vi avevo accennato, possiamo dormire lì senza dover tornare nei rispettivi appartamenti, ubriachi e stanchi. Sposterò il tavolo al lato del salone, così potremo appoggiarci cibo e bibite, mentre al centro ci sarà spazio per ballare. Visto che nel gruppo non hanno risposto tutti, tu sai chi altro c’è?».
Per fortuna, le chiacchiere di Sofia distolgono la mia attenzione dalla conversazione che si sta tenendo appena fuori dal locale.
Mi concentro sulle persone che ho aggiunto al gruppo personalmente e inizio con la lista: «A parte noi quattro, con Julian e Noah, sei, ci sono due
compagni di università di Noah, un mio collega, le quattro ragazze che avete invitato voi e l’amica di Alison. Julian ha invitato solo Josh, ma pare abbia l’influenza, quindi non crede di riuscire a riprendersi. Se le ragazze hanno risposto a voi, io ho le conferme degli amici di Noah e del mio collega».
Katy tira fuori il telefono e fa scorrere il pollice sullo schermo.
«Uhm… sì! Non c’è nessun imprevisto dell’ultimo secondo, quindi verranno tutte».
«Perfetto. Allora, saremo in... quattordici?».
Sofia annuisce e mi fa l’occhiolino. «Spero che il tuo collega sia carino».
Questa donna e la sua ossessione per qualunque maschio che respiri.
«Ha due anni più di me».
«E allora? Più grande è, meglio è».
«È biondo».
«Uuuuuh. Come Aiden?».
«No. Biondo cenere».
«Quindi, è misterioso. Occhi? Nome?».
«Occhi celesti. Si chiama Liam».
«Liam».
Sofia lo ripete in un sospiro e appoggia il mento alla mano con aria sognante, mentre la porta dietro alle mie spalle si apre almeno per la decima volta nel giro di un quarto d’ora.
La differenza, rispetto a tutte le altre, è che in questo caso riconosco la voce di Noah.
Mi giro e lo vedo al fianco di Julian, i passi lenti li conducono verso di noi, i volti rilassati e sorridenti.
Il peso nel mio stomaco si scioglie, l’improvviso sollievo mi fa accomodare meglio sulla panca e inspirare a pieni polmoni, come se fossi stato in apnea fino a ora.
Julian si lascia cadere sulla sedia davanti a me, Noah mi fa segno di spostarmi per sistemarsi al mio fianco.
Resisto, zitto e immobile, finché la musica non riempie il locale e il tavolo viene percorso dal chiacchiericcio degli altri presenti.
Julian si immerge in una conversazione con Sofia, Alison fa vedere il cellulare a Katy, quindi non me ne preoccupo più.
Passo un braccio intorno alle spalle di Noah e lo tiro più vicino.
«Tutto ok?».
Sono stato io a spingerli al dialogo, perciò mi sentirei doppiamente colpevole, se invece di migliorare le cose, le avesse peggiorate.
Noah alza lo sguardo, i nostri visi sono così vicini che, nonostante la scarsa luce, posso vedere tutte le infinite pagliuzze azzurre che gli accendono le iridi.
È un blu assurdo.
È solo suo.
«Sto bene. Perché?».
Scrollo le spalle. «Vi ho visto entrare sorridenti, ma non vorrei fosse solo una facciata».
Scuote la testa e la sua mano si poggia sulla seduta, accanto alla mia gamba. Le dita sfiorano la stoffa dei pantaloni, così delicate da poter passare inosservate a chiunque.
Non a me.
Capisco che sta cercando più contatto, ma non sono sicuro di saper identificare questo spazio tiepido che divide i nostri corpi. È un po come se ci fosse un clima a sé stante, rispetto al resto del locale, ed è diverso dalla classica confidenza che ci permette di toccarci senza imbarazzo.
Non sono in grado di comprenderlo e non voglio farlo; magari sto avendo delle impressioni sbagliate e solo mie, quindi le scaccio.
Però non mi sposto, resto in attesa della risposta di Noah.
«Nessuna facciata» mormora. «Abbiamo chiarito. Ci serve solo un po’ di tempo».
«Ok. Va bene».
Mi raddrizzo e avverto subito la differenza.
Il locale è riscaldato, ma l’aria circola e il tepore anomalo scema, lasciandomi solo con qualche goccia di sudore che scivola lungo la spina dorsale.
Prendo il boccale di birra e ne mando giù dei lunghi sorsi generosi, con la coda dell’occhio vedo Noah fare lo stesso.
La serata continua, io e Sofia cerchiamo in tutti i modi di stemperare l’umore di Julian, Noah mi dà manforte e Alison e Katy ci fanno da contrasto, per riequilibrare la conversazione quando noi esageriamo.
Riesco a strappare a mio fratello qualche altro sorriso, gli ultimi della giornata, e so che dovrei accontentarmi, ma mi è impossibile non notare il suo sguardo, dietro il velo di serenità che usa per coprirsi gli occhi e il cuore alla vista del mondo.
Forse lo notano anche gli altri, ma in misura minore. Per me, è come uno squarcio nella pancia, che non smette mai di fare male.
Mi impegno per aiutarlo, ormai è diventata una missione personale.
Ho altri obiettivi? No.
Ho un lavoro che amo, vivo in un appartamento sufficiente alle mie necessità e sto cercando l’occasione giusta per comprare la moto dei miei sogni, ma si tratta solo di avere pazienza.
Gli unici problemi della mia esistenza sono un padre stronzo, che mi dovrò comunque tenere così com’è, e l’infelicità di mio fratello.
Beh, almeno per questo, credo di dover fare qualcosa.
Alle undici ci alziamo tutti in piedi, le birre sono finite, il conto è stato pagato e qualcuno di noi inizia a sbadigliare.
Così, dopo aver salutato Sofia e Katy, mi offro di accompagnare Julian, Alison
e Noah.
Il freddo è pungente, come sempre quando non piove, il vento taglia il fiato per infilarsi direttamente nei polmoni. L’aria condizionata dell’auto ci riscalda in pochi istanti, mentre percorro la strada fino al residence.
Noah è seduto vicino a me, visto che Julian ed Alison scendono prima.
«Ci vediamo domani. Ok? Stiamo a pranzo insieme, come sempre?» chiedo, mentre mia sorella apre lo sportello.
«Io dovrei studiare» replica Julian.
Vorrei insistere, ma Alison scuote la testa. So che lei resterà a fargli compagnia, quindi non gli permetterà di deprimersi, ma in questo periodo non mi sento mai tranquillo quando non sono con lui.
Però, non posso essere pressante.
Non troppo, almeno.
«Va bene. A cena, allora?».
«Ok».
Julian scende, mia sorella mi rivolge un sorriso. «A domani, Noxi Knox».
«A domani, diavoletto. E non usare quel nomignolo del cazzo».
Non risponde, si limita a farmi una pernacchia e scendere, chiudendo lo sportello dietro di sé.
Ripartendo, provo a intavolare un discorso con il mio amico, ma lui gira la rotella del volume dello stereo e i bassi di Dimitri Vegas e David Guetta invadono l’abitacolo.
Per tutta la strada tra la città vecchia e il Dean Village, Noah fissa il paesaggio fuori dal finestrino, gli alberi piegati dal vento e i lampioni che diffondono un chiarore giallastro.
Il castello svetta sopra la città e la sua vista di solito rilassa la mia mente, donandomi un senso di appartenenza che non ho mai sentito per Stirling o per casa dei miei genitori.
Edimburgo è la mia città; da quando lavoro e vivo qui, apprezzo ogni strada, amo ogni negozio, tutti gli angoletti speciali, le vie caratteristiche, i musicisti in kilt che suonano la cornamusa per
accontentare i turisti.
I parchi, le mura antiche, i pub.
C’è tutta la Scozia, qui, ma non solo; c’è la magia di un mondo che va oltre la realtà, c’è un atmosfera diversa, che dà spinta all’immaginazione e innesta ali alle menti che hanno solo bisogno di volare. Sono sempre stato un uomo molto pratico e con i piedi per terra, ma Edimburgo riesce a farmi sentire leggero.
In questo momento, ho la sensazione di guidare per le strade di un altro posto, perché Noah è così silenzioso e sulle sue da scatenarmi un disagio strano.
Mi fermo lungo il marciapiede, a pochi metri da casa sua.
«Vuoi dirmi che c’è?» gli chiedo, spegnendo la macchina.
Finalmente, si gira verso di me. Ha le labbra tirate in una linea tesa, niente di simile all’espressione serena che sfoggiava mentre beveva birra.
«Niente».
«È per via di Julian?»
«No».
Non ci crede nemmeno lui.
Tiro indietro il sedile e giro il busto per rivolgergli tutta l’attenzione.
«Senti… avevo pensato di accompagnarti per darti il regalo di Natale, visto che non c’è stato modo di vederci prima, ma se fai così non ti do un bel niente».
Lo guardo appoggiare la testa al sedile e chiudere gli occhi. Sospira.
«Ok. È per… diverse cose».
«Comincia dalla prima».
«Julian».
Questo era piuttosto evidente. «Non è andata bene come volevi farmi credere?».
«No, no, è andata bene. Abbiamo chiarito, solo che… non mi sembra sia tutto come prima, non ancora. Mi ha chiesto un altro po’ di tempo, ma io speravo che fosse tutto risolto. E ciò che è peggio è che credo che si tenga distante perché l’ultima volta che è stato male, ha tentato di baciarmi. Parlo di un normale momento di depressione, che potrebbe vivere chiunque, invece quello che sta vivendo adesso è del tutto diverso e molto più profondo, quindi...».
«Pensi che abbia paura di fare qualche altra cazzata con te?».
«Penso che io non lo farei. Razionalmente, neanche lui. Ma è come se stesse evitando qualsiasi sua debolezza… mi capisci? Mi vuole bene, ma, a causa di quello che abbiamo fatto… in questo momento rappresento una debolezza. Vorrei solo potermi trasformare nella sua forza, come una
volta, come è stato sempre».
Fa un lungo e profondo respiro, gli occhi ancora chiusi. «Voglio essere di nuovo il suo migliore amico. E ne sono più sicuro che mai».
«Cos’è cambiato?».
Apre le palpebre e gira il volto verso di me.
L’abitacolo è immerso nell’oscurità, la luce dei lampioni sfiora i contorni del cruscotto e chiazza di arancione le gambe di Noah, ma non arriva ai suoi occhi. Eppure, li conosco così bene che riesco a leggerli anche nel buio completo.
«Non lo amo più».
Mentre lo dice, lo so.
Sento la verità trasmettersi non solo alle orecchie, ma anche alla pelle, anche alla mente, ferma su quelle parole come se fossero la rivelazione più importante del mondo.
«Avevi detto che i tuoi sentimenti erano già cambiati, quella notte».
Mi esce una riflessione senza senso, più una frase detta tra me e me che a lui.
Però, risponde lo stesso.
«Già. Non sapevo fino a che punto».
D’istinto, annuisco, per fargli capire che sono contento per lui, anche se contento è un concetto limitato per quello che provo in questo momento.
Noah ha sofferto per tanto tempo; non ha voluto mai dirmelo, finché non lo ha rivelato a Julian, però conoscevo da sempre la natura dei suoi sentimenti.
Era così evidente dal modo in cui lo guardava, dall’imbarazzata tenerezza con cui lo toccava, dalle cose che faceva per lui. Julian era sordo e cieco a quell’ondata di amore che lo investiva ogni giorno, lo scambiava per amicizia e rivolgeva lo sguardo altrove, ma a me non è mai sfuggito e mi dispiaceva non poter fare niente per alleviare la sofferenza che Noah si portava sempre dietro.
Sapere che è finalmente libero mi toglie un’ulteriore peso, perché se non è più innamorato di lui, forse c’è davvero la speranza non solo che tornino come prima, magari anche meglio.
«Bene. Allora non hai motivo per essere preoccupato. Julian deve solo superare questa fase con Aiden, poi tornerà al tuo fianco, come dovrebbe essere».
«Credi che il sesso possa essere dimenticato?».
«Credo che, se ci si vuole bene, si possa dimenticare quasi tutto».
Noah sospira, passa le dita tra i capelli e torna a guardare avanti.
«Julian non supererà la “fase” con
Aiden. Ha bisogno di lui, come io e te abbiamo bisogno dell’aria per respirare».
«Lo so, l’ho capito. Cercherò di fare qualcosa a riguardo».
Restiamo in silenzio per qualche istante, i miei occhi si abbassano a osservare i movimenti del suo petto, il respiro un po’ agitato. «Noah».
«Sì?».
La sua voce è normale, ma c’è qualcosa di strano, c’è ancora qualcosa di non detto e mi fa male sapere che me lo tenga nascosto.
Percepisco il suo stato d’animo instabile e voglio buttare giù il muro che sta costruendo per tenermi lontano dai suoi pensieri.
Non lo ha mai fatto. Mai.
Allungo la mano e gli tocco la spalla. Il suo corpo sussulta, il respiro accelera e lo vedo mordersi le labbra, come se stesse trattenendo le lacrime.
«Dimmi cosa c’è».
«Non è niente».
Scuote la testa, mettendo un’ulteriore mattone in quella barriera ed è abbastanza per mandarmi fuori di
testa. «Guardami».
Continua a fare segno di no, il labbro inferiore gli trema, le dita si stringono a pugno.
Ora, sono davvero preoccupato.
Sul serio, dev’essere un problema grave per farlo stare così.
E la prima cosa che mi viene in mente è…
«È successo qualcosa a tuo padre?».
Di scatto si copre il viso con le mani, nascondendo la propria espressione nell’istante in cui si spezza, ma io lo sento. Sento il suo cuore accartocciato che si lascia sfuggire un singhiozzo e tutta l’aria nella macchina scompare. Non posso più respirare, non so cosa stia succedendo, ho bisogno di sapere perché sta male, che c’è che non va, cosa è successo a Carter.
«Noah» lo chiamo, con un filo di voce.
Quando non risponde, non mi resta che tirarlo verso di me, artigliando la stoffa della sua felpa e costringendolo a chinarsi. Dopo il debole accenno di resistenza, la sua volontà cede e le mie braccia lo avvolgono.
Mi ricordo ancora il giorno in cui suo padre è stato ricoverato la prima volta.
Mi ricordo come tremava, il terrore che gli stravolgeva il viso, le gambe molli.
Mi ricordo quando ha portato a casa suo padre, quando è stato riportato in ospedale per la seconda volta, quando ha iniziato le cure e le visite di controllo.
Ricordo anche il momento in cui ha saputo che il padre di Aiden è morto d’infarto; la sua faccia spaventata, lo sguardo perso e le labbra che si muovevano per ripetere ossessivamente: “e se succedesse a me? E se succedesse a papà?”
Per fortuna Carter è stato preso in tempo, si sono accorti dei problemi all’aorta prima che un infarto lo stroncasse prematuramente. Lo hanno operato e quando non è bastato gli hanno messo un pacemaker.
Da quello che so, si sta riprendendo bene; si alza in piedi, cammina e si lava da solo, anche se Iris e Noah sono sempre al suo fianco.
Ma tutto sfuma nell’incertezza, quando Noah scoppia a piangere sul mio petto e sento le sue lacrime bagnarmi la maglietta.
Resto zitto e lo stringo, il mio cuore riceve una nuova pugnalata per ogni suo singhiozzo, però non voglio interromperlo, percepisco la necessità di sfogarsi e se devo essere la sua spalla, se devo fargli da appoggio per vederlo rialzarsi in piedi, è quello che farò.
Tutto ciò che serve.
Ci vogliono diversi minuti affinché si calmi, ma non allento mai la presa, gli faccio da scudo con le braccia, contro il mondo e contro il dolore che sta covando, da qualsiasi cosa sia causato.
Nel momento in cui mi chiede di dargli spazio e alza il viso verso il mio, con gli occhi affogati dalle lacrime e le guance umide, la mia presa si sposta dalla sua schiena alle braccia.
Non ho intenzione di lasciarlo, non adesso.
«Questa mattina, ho scoperto mamma in cucina, a piangere» si interrompe per tirare su con il naso, un singhiozzo precede una nuova goccia salata. La osservo gettarsi oltre la linea della mandibola e torno nei suoi occhi.
Ho sempre odiato vederlo piangere.
Sempre.
Perché? Perché, se fosse per me, non esisterebbe niente nel mondo che possa farlo sentire così.
«Ho pensato che fosse solo un cedimento, dato dalla stanchezza, ma quando mi sono avvicinato si è spaventata perché credeva di essere sola e, siccome non avrebbe voluto farsi vedere, mi ha chiesto scusa. Non capivo il motivo delle scuse… ma poi ha detto che avrebbe voluto parlarmene dopo le feste, dopo Capodanno. Quindi, ho capito che c’era qualcosa di brutto. Qualcosa che riguardava papà».
Lo stomaco mi sprofonda in fondo a tutti gli altri organi, trattengo il fiato in attesa di saperne di più.
Noah si asciuga il viso, respira e abbassa le palpebre, come per celare la ferita che gli squarcia il cuore.
La malattia di una persona cara è una ferita molto più dolorosa di un incidente improvviso, perché scava nella carne un po’ alla volta, giorno dopo giorno, e più la situazione si aggrava, più tu perdi sangue, finché non resta nient’altro che un guscio vuoto e senza energia.
Qualcosa di simile a un morto che, però, cammina ancora.
Per questo mi impegno ogni giorno per far star bene Noah, per questo esulto ogni volta che Carter fa un progresso; non solo per lui, come persona, perché gli voglio bene, ma soprattutto per Noah, per la scintilla di luce che si riaccende nei suoi occhi.
E che adesso non c’è.
«Pensavamo che stesse andando tutto per il meglio, che fosse in via di guarigione. È andato in pensione anticipata, come sai, perché non avrebbe più potuto fare la vita di prima, ma è vivo. Sta bene. Cammina, legge, mangia, dorme. È ancora con me, con noi, ed è felice, per quanto gli strascichi della convalescenza lo permettano, ma…»
«Ma?»
Scuote la testa, stritola la stoffa della mia maglia con le dita. «Mamma ha parlato con il medico l’altro giorno. Dice che dalle ultime analisi e dall’ultima visita, risulta che il suo cuore sia ancora
troppo affaticato, che il pacemaker non sia abbastanza. Sta prendendo delle pasticche e potrebbero migliorare la situazione, con il tempo, però il dottore ha detto che, letteralmente, il suo cuore è troppo consumato per concedergli una vita… l-lunga».
Gli si spezza la voce sull’ultima parola e io lo attiro di nuovo contro di me.
Sento che l’abitacolo si sta facendo di nuovo freddo quindi allungo il braccio sinistro, senza mollare Noah col destro, e faccio fare uno scatto alla chiave per riaccendere l’aria calda.
«Che aspettativa di vita ha?» domando. Sento la mia voce incolore, come quella di un estraneo.
Noah ricomincia a piangere. «Qualche mese, forse un anno. Non lo so».
«E non c’è niente che si possa fare?».
Mi stringe forte, lo lascio fare, assecondando quel bisogno di avere un ancora in mezzo alla tempesta, perché, in questo momento, Noah ha solo me.
«L’unica speranza è un trapianto. Il dottore lo ha già messo in lista, ma… i donatori di cuore sono...»
«Rari» rispondo, al posto suo. «Lo so».
Nonostante la situazione difficile, nonostante sia una persona realista, non posso permettermi di non sperare. Questo ragazzo, quest’anima buona che non ha mai fatto niente di male nella sua vita, sta ricevendo un colpo dietro l’altro. Non è giusto e non credo che non ci sia una piccola luce, un briciolo di speranza in fondo al tunnel, per lui, per la sua famiglia, per un po’ di serenità.
Quindi, spero al posto suo.
Lo allontano e gli afferro il viso con le mani, lo fisso negli occhi per trasmettergli tutta la sicurezza che ho, o che vorrei avere.
«Non smettere di crederci, Noah. Raro non è impossibile, ok? Tuo padre è vivo, è lì, in casa, sta dormendo al fianco di tua madre ed è ancora con te. Con noi. C’è speranza. Fino all’ultimo respiro, c’è speranza».
Resta immobile e in silenzio, per quasi un minuto.
Poi, gli angoli della bocca si incurvano e un sorriso compare a illuminargli il volto. È un sorriso bagnato e sofferto, ma c’è. Ed è mio.
Ricambio, togliendo le dita dalle sue guance e passandogliele tra i capelli corti.
«Andrà tutto bene» lo rassicuro.
Annuisce. «Andrà tutto bene».
Ci rilassiamo sui sedili, l’aria calda soffia sui piedi e sale ad avvolgerci le gambe. Aspetto qualche minuto, prima di parlare.
Voglio che Noah ritrovi la tranquillità, che il peso che porta dentro si sciolga insieme alle lacrime versate.
Infatti, è lui a parlare per primo.
«Posso darti il mio regalo?».
Mi giro subito a guardarlo.
«Che regalo? Non dovevi farmi un regalo!»
Alza gli occhi al cielo. «Tu me lo fai ogni anno».
«Io lavoro».
«E io ho i soldi per farlo, anche se non lavoro. Fatti gli affari tuoi».
Lo dice con un sorrisetto furbo, che mi mette a mio agio, mi fa sentire come sempre, con lui.
Un sorrisetto che segna il ritorno alla normalità.
Noah infila una mano nella tasca della giacca e ne tira fuori una busta da lettera. Appena allunga il braccio, studio la carta bianca e la sua espressione.
«Non mi avrai mica regalato dei soldi».
«Gesù. Ma non te l’ha mai spiegato nessuno che bisogna aprire i regali ed evitare domande stupide?»
Sfioro la busta con le dita, lui lascia la presa e appena apro, noto un codice a barre e due biglietti rettangolari, in cartoncino.
Non faccio in tempo a estrarli, capisco subito di cosa si tratta.
Spalanco bocca e occhi.
«NON È VERO».
Noah scoppia a ridere e mi fa il secondo regalo nel giro di qualche secondo. Forse, è persino più bello del primo.
Mi si scioglie il cuore e poi comincia a correre. È strano.
Bello.
«Fanno il Tomorroland a Londra, questa estate» annuncia lui.
Fisso i biglietti, leggo le scritte, poi guardo Noah. «Tu sei pazzo».
Solleva le spalle. «Buon Natale, Knox».
Mi viene voglia di saltargli addosso per stritolarlo, poi mi ricordo che anche io ho un regalo per lui e che, forse, la cosa più appropriata per ricambiare questa gioia è darglielo.
Sfilo una busta molto simile a quella che mi ha dato lui, ma quando la rigira tra le dita, mi sento d’un tratto molto stupido. Non è paragonabile al suo regalo.
«Ok, è una cosa strana. È che lo hai detto tante volte, che lo volevi fare. E poi, potremmo andarci insieme, se ti va. Posso farti compagnia, o magari fare un altro anche io e...».
«Knox»
«Cosa?»
«Sta’ zitto cinque secondi».
Tira fuori il foglio.
I suoi occhi scrutano la pagina, probabilmente studiando i dettagli dall’inizio alla fine e valutandone il senso. Forse non ne ha.
Ho sbagliato, cazzo.
È un regalo di merda.
«È un buono per fare un tatuaggio?».
«Sì. Ma se non ti va lo faccio io e ti regalo un’altra cosa».
Un secondo dopo, me lo ritrovo addosso. Le sue braccia muscolose mi avvolgono, la faccia di nuovo premuta su quel rettangolo umido della maglia, dove ha pianto poco fa.
E adesso ride.
Sento le vibrazioni che salgono lungo il mio corpo e mi strappano un sorriso.
«Lo facciamo insieme» dice. «Ti terrò la manina mentre piangi per il dolore».
«Casomai, sarà il contrario».
«Non sono una mammoletta come te».
«Non hai mai fatto un tatuaggio».
Ride di nuovo, contagiandomi.
«Che sarà mai».
«Ne riparleremo quando lo farai».
Apro la mano sulla sua schiena, lo avvicino di più, come se il dolore che ha dentro potesse portarmelo via. Mi ricordo che questo incastro dura da una vita e che non c’è niente di più confortevole della sensazione di averlo vicino.
È un po’ come stare con Julian.
O forse no.
Forse è del tutto l’opposto.
Ma non lo so, non ne sono più sicuro.
E non me lo chiedo.
Mi limito ad affondare il naso tra i suoi capelli e prego che vada davvero tutto bene e che questa notte venga esaudito un unico desiderio, che sarebbe il regalo più grande di tutti.
Che il padre di Noah trovi un cuore e che quello di suo figlio, batta sempre con questa gioia qui.
«Buon Natale, Noah».
Non mi ha ancora lasciato.
Mi stringe e ride.
«Anche a te, idiota. E grazie».

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Posso dire che li amo?
Lo dico.
❤️

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