46.Partenza

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NOAH


10 Luglio


Sistemo la giacca in valigia, poi chiudo, ricapitolando a mente di averci messo tutto il necessario.
Resterò solo tre giorni, quindi non ho bisogno di molti vestiti, ma per il colloquio ho scelto di portare un completo blu scuro, con camicia bianca, perché credo che in un’azienda del genere sia adeguato. Soprattutto se il capo è uno che in giacca e cravatta ci dorme pure.
«Tesoro, hai preso tutto?»

Mamma mi abbraccia da dietro, posa un bacio sulla mia schiena e poi allenta la stretta, permettendomi di girarmi e coccolarla contro il petto. Appoggio il mento sulla sommità della sua testa e chiudo gli occhi, nel tentativo di calmare l’ansia che mi agita lo stomaco.
«Credo di sì. Sono solo pochi giorni».
«Lo so, ma l’importante è non dimenticare i vestiti. Tutto il resto puoi comprarlo».
«Posso comprare anche i vestiti».
«Sì, ma sei così complicato nella scelta che tre giorni interi ci vorrebbero solo per lo shopping».
Mi strappa un sorriso, il primo che faccio da giorni.
Mamma si stacca, fa un passo indietro e mi prende le guance, gli occhi cercano di indagare i miei pensieri. La vedo spulciare fino all’ultima sfumatura di azzurro delle mie iridi.

«Non stai bene» conclude.
Non starò mai bene, mamma.
Vorrei dirlo, ma trattengo le parole per non farla preoccupare ulteriormente.
«Ci sto provando».
Mi accarezza. «Lo so, tesoro. Lo so».
«Sta’ tranquillo. Il colloquio andrà alla grande».
La voce di papà interrompe il momento con mamma, quindi lei abbassa le mani e intreccia le dita con le mie.

Non sto così per il colloquio. Lo sa papà, lo sanno entrambi.
Quando sono andato da loro a parlare della proposta di Marc, più di una settimana fa, mi sono apparsi subito dispiaciuti al pensiero che me ne andassi, ma hanno cercato di rassicurarmi e spronarmi in ogni modo. Mamma mi ha addirittura comprato un libro per imparare la lingua francese e me lo ha portato a casa il giorno dopo.
Non ero convinto, però.
Per niente.

Volevo vedere Knox e cercare di mettere in chiaro le cose, prima di prendere una decisione.
Dopo il bacio con Callum e la discussione, non sono riuscito a dormire e giovedì mi sono trascinato dai miei, con le occhiaie e la mente a pezzi.
Mamma mi ha coccolato per tutto il tempo, senza dire nulla quando ho chiamato Marc per comunicargli l’intenzione di comprare un biglietto aereo per lunedì e chiedergli se la proposta fosse ancora valida.
Mi è sembrato entusiasta, anche se ha ignorato il mio stato emotivo, piuttosto facile da intuire dato il mio tono di voce. Però dubito che gli interessi qualcosa.
Per lui, il semplice fatto che parta è una specie di vittoria, probabilmente.

Non mi importa.
Voglio solo andarmene da qui, voglio solo impedirmi di correre a casa di Knox e gridargli che deve smetterla di avere paura, perché non ha alcun senso, perché andrà tutto bene, perché ci costruiremo una vita insieme.
So che se restassi, lo farei.
Diavolo, vorrei anche adesso.

Abbandonare la valigia sul letto, uscire di casa e correre da lui. Lo cercherei per tutta la città, passerei dall’officina, girerei i locali che frequentiamo di solito e infine busserei alla sua porta fino a non sentirmi più le mani.
Aspetterei di fuori sotto la pioggia.
Anche per giorni.

Gli darei il tempo che gli serve, ma non mi allontanerei da lì. Sarei capace di vivere nutrendomi dei gesti che fa ogni mattina, della breve camminata da casa a lavoro, della corsa pomeridiana, del
modo in cui cucina e apparecchia per sua sorella.
Assorbirei quei piccoli dettagli quotidiani che facevano parte anche della mia vita fino a meno di un mese fa e che ora sembrano così distanti da appartenere a un altro Knox e a un altro me.
Lo farei, per lui.

Però, no.

Non posso ridurmi a questo, non quando non sono sicuro che possa portarmi da qualche parte.
È meglio andare via.
«Speriamo» rispondo a mio padre, con meno fiducia di quella che vorrei infondere alla mia voce.
Inspiro, espiro, scaccio i pensieri.
Papà abbassa lo sguardo per controllare l’orologio. «Andiamo?»
Vorrei sorridere, ma tutto quello che mi esce è una smorfia.
Per fortuna mio padre non commenta,
anzi, mi spettina i capelli e indica il trolley.
«Lo porto io» gli dico, indicando la porta. «Vi aspetto in auto».

Salire è il primo passo importante, arrivare in aeroporto è il secondo.
Devo procedere un po’ alla volta se non voglio mandare tutto a puttane, non pensare all’enorme cambiamento nella sua interezza è la cosa migliore.
Un metro, un altro metro; un gesto, un altro gesto.
Questo è l’unico modo.

Il tragitto da casa all’aeroporto è silenzioso. La musica riempie l’abitacolo e mia mamma mi tiene la mano dal sedile posteriore. È bello vedere papà che guida di nuovo, almeno questa è una piccola gioia nella mia vita che sta andando a rotoli.
So che papà sta bene, che mamma non fa tutto da sola, che sono sereni e che il mio viaggio è senza impegno. Vado, faccio il colloquio e poi ci rifletto con calma.
Magari passando il tempo sul divano dei miei, con mio padre accanto per vedere un film insieme e mia madre che prepara le sue marmellate squisite.
Nonostante i buoni propositi per mantenermi tranquillo, quando scendo dalla macchina, mi tremano le mani.

Papà mi aiuta a tirare fuori il trolley e io ricontrollo le tasche per essere sicuro di avere documenti e telefono. La pioggia è talmente sottile che a malapena ci bagna, ma è sufficiente a farmi inumidire i
capelli e annebbiare un po’ la vista.
«Andrà tutto bene» mi incoraggia mio padre. «Non devi temere per il viaggio, anche se è la prima volta che vai da solo. A Charles De Gaulle ti aspetta Julian, giusto? Devi solo mandarci un
messaggio quando atterri. Ricordati».
Confermo con la testa. «Certo».
Mamma fa un passo avanti, superando papà per monopolizzare la mia attenzione.
«Sai che noi ti amiamo e ti sosteniamo sempre e comunque, vero? Non devi accettare, se non è quello che vuoi, ma non devi neanche tornare, se non è quello che vuoi. Qualsiasi cosa tu decida, saremo con te, come abbiamo sempre fatto e come sempre faremo. Non ci deluderai mai, Noah, perché sei un ragazzo meraviglioso. Anzi, che dico… un uomo meraviglioso. Tutto ciò che sei ci
rende orgogliosi. Non dimenticarlo, ok? Qualsiasi cosa tu faccia, non sarà un errore».

Gli occhi mi si riempiono di lacrime e la avvolgo tra le braccia senza dire una parola, perché non credo che riuscirei a controllarmi.
Mi aggrappo al suo calore con tutte le forze, respirando il profumo rassicurante dei suoi capelli e pensando che se dovessi decidere davvero di trasferirmi, mi dovrei comprare il suo shampoo, perché la mancanza del suo odore sarebbe davvero troppo disorientante.

Mi do ancora qualche minuto, così come lo concedo a lei, poi respiro profondamente e allento la presa. Quando mi stacco, lancio un’occhiata a entrambi.
«Grazie» mormoro, la voce tremante, le mani strette a pugno per trattenere l’emozione.
«Non dirlo nemmeno per scherzo» ribatte papà. «Grazie a te. Alla persona unica che sei».
Abbasso le palpebre, ingoio le gocce salate.
«Tornerò presto» li rassicuro.
«Qualunque cosa tu voglia» ribadisce mamma.
Sorrido.
Anche se sono sull’orlo di un baratro dal quale non mi sono mai buttato e che mi terrorizza.
Soprattutto perché, in fondo, so che non è quello che desidero.

Prima di cambiare idea, mi giro, afferro la maniglia del trolley e avanzo con il terzo passo importante. Quello che mi porta fin dentro l’aeroporto, seduto sui sedili dell’enorme salone, in attesa. Controllo l’ora e decido di andare a prendere un caffè, per tirarmi su di morale.
Proprio quando sto bevendo l’ultimo sorso, in piedi davanti al bancone, con la valigia a fianco e un pesante magone nel cuore, il mio telefono squilla.
Lo tiro fuori dalla tasca.

E tutto il mondo sparisce.
D’un tratto, mi sembra di rinascere.
Oh, Dio.

Fa’ che sia per quello che penso.
Ti prego.

La tentazione di rispondere subito é forte, ma nonostante le emozioni che mi percorrono siano riuscite a seppellire la rabbia per un po', un guizzo di rancore risale lungo la gabbia toracica.
Mi sta chiamando adesso.
Ora che sto per partire.

Ignoro la chiamata una volta.
Ne arriva una seconda.
E poi una terza.

Prendo una bottiglietta d'acqua e ne mando giù un lungo sorso freddo, poi silenzio il telefono, fingendo che non mi importi. Che ormai sia troppo tardi.

Resisto fino alla decima chiamata.
Quando sono seduto di nuovo sulle panchine, il mio telefono continua a vibrare e la speranza nel mio petto sboccia prorompente, molto più forte della rabbia.

Non ce la faccio più.

Mi trema il pollice mentre lo sposto sopra la cornetta verde, ma cancello tutti i motivi per cui quello che sto facendo é sbagliato. Perché forse non lo é.
Forse c'è una piccola, minuscola, luce in fondo al tunnel.

Porto il telefono all’orecchio.
Sospiro.

«Knox?»

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- 2 capitoli + epilogo.
Che dite, gliela diamo un po' di gioia a questi due cuccioli? ❤️❤️

Buona domenica.
❤️

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