47.La telefonata

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KNOX

9 Luglio – il giorno prima


Trascino i piedi con passi lenti e misurati.
Mi fa male la schiena e ho ancora il sudore della giornata appiccicato addosso. Mentre tolgo le scarpe per lasciarle vicino alla porta, abbasso le bretelle della tuta e sposto lo sguardo.

Alison è rannicchiata sul divano, gli occhi chiusi, il respiro calmo.
La televisione è rimasta accesa, una puntata di una serie che non conosco sta proseguendo, mentre il rumore della pioggia picchietta sul vetro della finestra.
Ho fatto in tempo ad arrivare a casa prima che iniziasse a piovere.
Le nuvole scure rendono l’atmosfera cupa, anche se, in teoria, la luce del giorno non è ancora scemata, visto che sono solo le otto.
Sono andato in officina a controllare delle scadenze, seppure sia domenica, poi mi sono fermato a bere una birra nel locale a fianco.

Sono giorni strani.
Non riesco a riposare bene, mi sveglio sempre troppo presto e mi addormento troppo tardi. Mi alleno in casa prima di andare a lavoro, per sfogarmi, e quando torno a un orario decente vado a
correre. Mangio perché sento che il mio corpo ne ha bisogno, ma la voglia di assaporare i miei cibi preferiti o di cucinare qualcosa di sfizioso non mi appartiene più.
Alison mi aiuta come può e di solito mi fa trovare la cena pronta quando rientro, ma nemmeno lei è in grado di sollevare il mio cuore pesante. Me lo tiro dietro come un enorme masso attaccato ai
piedi con una catena.
Mi costa fatica uscire, camminare, persino respirare.
Tutto questo, perché la mia mente non si è mai staccata da quel fottuto momento.
Quello in cui sono scappato via.
Dio, sono così stupido.

Non ho avuto il coraggio di chiamare Noah perché non sapevo cosa dire, ero sicuro di bloccarmi ascoltando la sua voce, ma gli ho mandato qualche messaggio.
Non li ha neanche visualizzati.

Lo capisco.
Lo so che ha tutte le ragioni per ignorarmi e io sto cercando di capire che devo fare, sto cercando di comprendere cos’è che mi spaventa tanto e le parole di mia sorella mi riecheggiano nel cervello ogni volta che chiudo gli occhi.

È questo per te l’amore? Una roba che provi mentre lo scopi e poi scivola via il giorno dopo, solo perché pensi di non valere abbastanza? Sei disposto a cedere così facilmente, quando dovresti
combattere per lui?

E la risposta è che io non lo so cos’è l’amore.
Non l’ho mai provato in prima persona, neanche una stupida cotta adolescenziale. L’unico che mi ci
ha portato abbastanza vicino è stato Callum e ricordo bene com’è andata a finire.
Però non era amore, non è mai stato amore, con nessuno.
Mi viene da pensare che il mio cuore si sia chiuso nel momento stesso in cui ho conosciuto Noah, perché forse gli appartenevo da molto prima che me ne rendessi conto, ma quando ci rifletto, non riesco a mettere ordine nel mio cervello, né tanto meno interpretare la tempesta che infuria nel mio cuore.

Eppure l’ho detto, quella notte.
Ho detto che lo amavo e l’ho sentito, dentro di me.
Così come quando abbiamo discusso e me ne sono andato da casa sua lasciandolo con un “non lo so”.
Cazzo, se lo sapevo.
Lo so anche adesso.
Come posso avere ancora paura?
Come posso non trovare la forza per buttarmi e rischiare?
Non solo vorrei stare con lui, ma anche viverci insieme e svegliarmi al suo fianco; tutto quello che abbiamo vissuto per un mese e mezzo, io lo desidero per tutta la vita.
Ne sono sicuro.

È solo che…
Non tentenno sul mio sentimento.
Quando ho iniziato a rimuginare sulla proposta di Marc e sulla possibilità che Noah rinunciasse per me, mi sono chiesto cosa succederebbe se smettessi di amarlo, se mi sbagliassi.
Se non fossi abbastanza innamorato di lui da valerne la pena.
Mi è bastato rivederlo di persona, mi è bastato farci l’amore la notte dopo il nostro ritorno e poi tenermi distante, per capire che quello che mi sta crescendo dentro non può sparire con un battito di ciglia. Non è così che funziona.
Perciò, no, non sono spaventato per questo.

Il mio terrore è che sia lui a ripensarci, che in un domani non troppo lontano, mi guardi con tutti i sogni infranti negli occhi e mi dica che la colpa è solo mia.
Non potrei sopportarlo e se mi sto tirando indietro è solo perché spero con tutto il cuore che possa realizzarsi, più di quanto abbia mai fatto io.
Voglio che sia felice, anche se la sua felicità dovesse comportare la mia assenza.
Ma cazzo quanto fa male.
Sono diventato l’ombra di me stesso in pochi giorni, non so l’impatto che potrà avere su di me nei mesi che verranno.
O negli anni, addirittura.

Rincorrerò il suo ricordo per sempre? Cercherò i suoi occhi in quelli degli altri? Fingerò di amare qualcuno come amo lui?
Non lo so.
Non ho la forza di guardare così in là.
Faccio solo un passo alla volta: mi alzo, eseguo i gesti ai quali mi sono abituato; esercizio, lavoro, cibo, e poi mi butto sul letto sfatto dalla giornata, sperando di avere pace.
Invece non succede.
Non succede mai.

Vado in cucina e mi verso un bicchiere d’acqua, poi apro il frigorifero, in cui ci sono degli hamburger in un contenitore e dei piselli in un altro, cose che ha cucinato ieri sera Alison e che sono
avanzate. Le tiro fuori, le sposto in un piatto e le infilo nel microonde per scaldarle, intanto attraverso la sala e il corridoio per raggiungere la camera. Sfilo la tuta, buttandola sul pavimento,
poi mi libero della t-shirt e ne metto una a caso, rimasta sulla sedia.
Di solito sono molto ordinato, ma non ho voglia nemmeno di sistemare la mia stanza, senza considerare il fatto che sono troppo distrutto per farlo.
Quando torno indietro, Alison si sta stiracchiando, seduta sul divano.

«Quando sei arrivato?» mormora, la voce ancora impastata dal sonno.
«Poco fa. Ho scaldato la cena. Hai fame?»
Annuisce, si alza stropicciando gli occhi e barcolla fino in cucina. Mi accomodo di fronte a lei sul bancone, passando le dita sul suo viso per scostarle i capelli.
«Sei in mutande».
«Lo so».
«Vuoi cenare in mutande. Mamma ti ucciderebbe».
«Mamma non c’è e io sono davvero troppo esausto per farmi una doccia prima di mangiare e troppo sporco per mettere dei vestiti puliti. È un problema?»
Lo sguardo di mia sorella si addolcisce, ma prima di rispondermi si alza e va a prendere il cibo nel microonde. Distribuisce carne e piselli a entrambi, poi posa il piatto nel lavandino e viene da me.
«Che c’è? È un problema davvero?»
«No, Knoxi. Non mi interessa come vai in giro in casa».
Cerco di sorridere, ma lei non ha neanche il tempo di vedermi, perché si china e mi avvolge le braccia intorno al collo.

«Ali?»
«Vorrei che parlassi con me. Vorrei che mi dicessi perché stai così male».
Sento precipitare il cuore.
Anche io lo vorrei, ma se solo provassi a esprimere ciò che sento in questo momento, sono sicuro che crollerei. E non me lo posso permettere.
«Sto bene, Ali. Mangiamo».
Esita prima di lasciarmi e mi posa dei baci leggeri sulla spalla.

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