🥛 23 - TADAIMA [LUI]

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ただいま
TADAIMA
[sono a casa]

Conversazioni, risate contenute, e saluti formali mi ronzavano attorno in un sottofondo nostalgico. Ma fu all'uscita dall'aeroporto che le gambe persero rigidità. I cartelli, le pubblicità, l'odore del Giappone... Mi dovetti fermare per non collassare a terra a piangere. Guardai il cielo limpido, e gli undici anni vissuti a Londra si sciolsero all'istante. Tutto mi sembrava perfettamente al suo posto. Come aprire la porta di casa dopo essere uscito a prendere il latte e urlare «Tadaima!» per poi sentire nonna Tomoko ricambiare con un affettuoso «Okaeri». Ero di nuovo parte di quel grande organismo vivente che, nonostante tutto, avevo continuato a chiamare casa.

Ispirai a lungo, strinsi il manico della valigia, e ripresi a camminare.

Dalla stazione della Monorotaia Hamamatsucho, prendendo la linea Yamanote, arrivai a Tokyo in sei minuti. L'appuntamento con Akira era fissato di fronte alla statua di bronzo commemorativa del cane Hachiko. Arrivato a Shibuya, Akira era appoggiato alla base della statua e sorrideva.

«Souta-kun!», agitò la mano entusiasta, la maglietta oversize ondeggiava di qua e di là.

«Ti facevo più basso».

Rise, scuotendo la testa. «Questo perché mi hai sempre visto seduto. In undici anni mi sono alzato di un bel po'». Prese ad analizzarmi. «Tu sei tale e quale a come ti mostra la webcam... forse un po' più magro. Ma dai, raccontami del viaggio in aereo!», mi colpì la schiena con il palmo. «Ancora non ci credo che sei qui».

«È surreale, Akira-kun. Mi sembra di non essermene mai andato».

Attraversare l'incrocio di Shibuya fu come ritrovare una parte di me stesso che avevo perso. Sopraffatto da un fiume inarrestabile di persone che si muoveva in tutte le direzioni, ognuno con una meta precisa o forse solo perso nella routine quotidiana, mi era salita la pelle d'oca.

Akira mi osservava felice.

«Ho i brividi», confessai.

***

Casa sua era vicina e molto diversa da quella in cui avevo vissuto a Londra. I quattordici metri quadrati di appartamento raggiungevano la grandezza complessiva del giardino posteriore di Nobu. Accedemmo al genkan, la piccola zona di ingresso, dove ci togliemmo le scarpe. Akira prese dalla scarpiera a sinistra un paio di pantofole per entrambi. Era una pratica che io e lo zio avevamo mantenuto obbligatoria, sebbene le abitudini occidentali non lo richiedessero.

A destra c'era la cucina, con un piccolo fornello elettrico e il lavandino subito accanto.

«Quante volte hai cucinato?», chiesi, infilando le ciabatte.

«Pochissime. Mangiare fuori è molto più conveniente, e poi verrò a mangiare ogni giorno da te gratis quando aprirai il ristorante».

Risi. «Te lo puoi scordare. Al massimo posso farti uno sconto».

«Come sei venale, Souta-kun». Indicò una porta sulla sinistra, a neanche un metro dalla cucina. «Qui c'è il bagno. Water, lavandino e vasca funzionano alla perfezione».

Sollevai la valigia per non strisciare il pavimento in legno, e arrivammo alla zona living; il cuore della casa, nonché la zona più sfruttata da Akira. Il microonde giaceva sopra l'enorme frigo ricoperto da calamite e foto che costeggiava la postazione da gaming dalla quale Akira non si spostava quasi mai e che avevo visto ogni giorno negli ultimi quattro anni.

«Ti ho preparato una cuccetta», indicò un futon e un cuscino sotto la scala di legno che conduceva al soppalco. «E ho liberato uno dei miei armadietti».

LACRIME NEL LATTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora