🥛 26 - KUROI CHŌ [LEI]

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黒い蝶
KUROI CHŌ
[farfalla nera]

31 agosto

L'aereo toccò terra con un leggero sobbalzo, e il cuore mi batté forte mentre il velivolo si faceva strada sulla pista dell'aeroporto di Narita. Il viaggio era stato lungo, ma l'adrenalina mi teneva sveglia e vigile. Avevo trascorso le ore a leggere il romanzo prestatomi da Souta. Riprendere da dove avevo lasciato fu più facile col pensiero che lo avrei rivisto.

Il primo impatto con l'aeroporto fu assurdo: luci accecanti, insegne in giapponese, e un fiume di persone che si muovevano con una precisione coreografica. Ero una piccola formica in un formichiere linguistico e culturale estraneo, eppure tanto familiare da sentirmi parte dello stesso. Il ronzio delle conversazioni intorno a me era una melodia continua di parole che capivo solo in parte.

Niente sottotitoli.

Fu il primo pensiero.

Con la valigia melanzana stretta nella mano destra e lo zainetto nero sulle spalle, mi diressi verso il terminal dei treni. Avevo studiato con Zoe ogni dettaglio del percorso: prendere lo Skyliner fino a Ueno, poi la Yamanote Line fino a Shibuya.

Il treno arrivò puntuale, lucido e ordinato. Cercai un posto vicino al finestrino per non perdermi nulla del paesaggio urbano. Il suono ritmico sui binari era quasi ipnotico, interrotto solo dagli annunci chiari e melodiosi delle fermate. Alcuni passeggeri dormivano, altri leggevano manga o guardavano video sui loro smartphone con le cuffiette.

Che silenzio.

Estrassi la Nikon, e il cuore di Tokyo mi accolse con tutta la sua vivacità. Shibuya era un caleidoscopio di luci, colori e suoni. L'enorme incrocio davanti alla stazione pulsava di vita, con centinaia di persone che lo attraversavano simultaneamente da ogni direzione.

Superai la statua di Hachiko, simbolo indiscusso di Shibuya eretto in memoria di una storia così toccante da commuovere un'intera nazione. Camminai attraverso l'incrocio, avrei voluto avere mille macchinette fotografiche per riuscire a cogliere ogni frammento di ciò che mi attorniava.

Mi presi un momento per consultare Google Maps. L'indirizzo fornitomi da Zoe indicava che l'abitazione di Akira era nelle vicinanze. Quando arrivai a destinazione, il complesso edilizio anonimo, con una sfilza di porte tutte uguali, mi legò lo stomaco. Mi venne un giramento di testa dall'ansia, e mentre mi avvicinavo al numero civico indicato da Zoe iniziai a tremare. L'agitazione, mischiata all'aspettativa di come avrebbe reagito Souta vedendomi, mi faceva sudare. Alzai l'indice per pigiare il campanello.

La porta si aprì.

Occhi a mandorla, lineamenti borbidi, una zazzera di capelli tinti di biondo; quel volto doveva appartenere ad Akira.

«Ohayō», esordii. «Watashi wa Claflin Lily desu», attinsi dal recipiente delle mie conoscenze linguistiche una colloquiale presentazione di me stessa. Ci aggiunsi un inchino, come quelli di Souta, e attesi in silenzio che Akira dicesse qualcosa. O che respirasse. Perchè non sentivo nulla tranne il mio cuore che mi percuoteva lo sterno.

«Areee? Lily-chan!?», si sbalordì. «Sugee!», mi tese la mano. «Entra, entra». Il suo inglese misto giapponese mi confuse, ma accettai di buon grado l'invito a seguirlo dentro. «Kutsu», indicò il rettangolo all'ingresso antecedente un basso gradino.

Tradussi la parola con "scarpe" e capii si riferisse alla loro abitudine di togliersi le calzature prima di entrare in casa. Sfilai le All Star, Akira prese la mia valigia in un gesto di galanteria e mi guidò attraverso un breve corridoio fino al soggiorno dove una postazione da gaming che Tristan avrebbe invidiato mi riempì lo sguardo. Akira sollevò lo smartphone dal pavimento, collegato al caricabatteria, e digitò qualcosa.

LACRIME NEL LATTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora