🥛 12 - CHŌ [LEI]

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CHŌ
[farfalla]


Quando il dito di Souta aveva accarezzato il mio labbro inferiore, il sangue mi era affluito alle guance rendendole roventi. Il tocco era stato di una delicatezza reverenziale, ma la sua imprevedibilità mi aveva lasciata senza fiato. Ero rimasta a guardare la sua bocca succhiare la marmellata di fagioli rossi con la bramosia di sentire di nuovo quel contatto. Ma la sua voce aveva risuonato nell'aria, un comando per aiutarlo a fare gli spaghetti. Dunque l'avevo aiutato, impegnandomi a cancellare quell'attrazione che non avevo mai sperimentato per qualcuno tanto lontano da me.

Servimmo omurice e udon sui bassi tavolini che Zoe e Tristan avevano raggruppato al centro del salotto.

«Itadakimasu!», esclamò lei dividendo le bacchette usa e getta.

«Buon appetito», le fece eco Tris facendo partire il primo film della maratona.

Souta unì le mani, chiuse gli occhi, e chinò di poco la testa prima di affondare le bacchette nel pezzo di omelette che aveva nel piatto.

Mi affascinava il modo in cui viveva ogni istante con tanta consapevolezza. Provai a imitare i suoi gesti e iniziai a mangiare. Ogni portata era deliziosa, una combinazione perfetta di sapori che scoppiava in bocca. Cercavo di concentrarmi sul film, ma ogni tanto mi lasciavo distrarre da Souta e lo guardavo con la coda dell'occhio. Le scene si specchiavano nelle sue perle scure, arginate da ciglia folte come fili d'erba in una notte senza stelle. In un istante, la Sapporo straripò dal bordo del mio bicchiere, finendo per scivolare sulla tovaglia e infine sul mio vestito.

«Scrat!», Zoe mise in pausa il film.

Posai la lattina vuota sulla porzione di tovaglia asciutta, e mi alzai dal tappeto facendo attenzione a non far colare la birra dappertutto.

Imbranata! Perchè non stai mai attenta a ciò che fai?

Avrei voluto dare la colpa a Souta, ma la colpevole ero io che ero rimasta a fissarlo inebetita mentre riempivo quel maledetto bicchiere. Tris e Zoe mi presero in giro per un po', mentre tentavo di salvare il salvabile. Avevo perso la sete e una buona dose di autostima.

«Vatti a cambiare», rise Zoe. «Noi sistemiamo il macello».

Sudata dalla vergogna, presi lo zainetto da sopra uno dei due sofà e mi fiondai in bagno. L'enorme doccia a specchio fu una cinquina su entrambe le guance. Deglutii e tentai di avvicinarmi, ma un campo magnetico mi impediva di procedere. Due passi avanti. Uno indietro. Due avanti. Uno indietro. Finii per sbuffare e gettai lo zainetto sul pavimento, accanto al lavandino. Presi il pigiama blu scuro che avevo acquistato insieme a Zoe quella mattina. Era sobrio, addirittura noioso se paragonato al faccione di Naruto Uzumaki. Ma l'avevo scelto per la neutralità di colori e ci avevo speso anche poche sterline, quindi andava più che bene.

Sfilai l'abito e chiesi supporto a tutti i Santi del Paradiso che non si fosse rovinato. Feci scorrere l'acqua. Strofinai con forza la saponetta al profumo di cotone sulla macchia di birra. Fuori pioveva, quindi misi l'abito a stendere sul termosifone. Tornai al lavandino e mi lavai le cosce, sfregando fino ad arrossare la pelle.

La porta del bagno si aprì.

Walter?

In intimo, rabbrividii e scagliai l'asciugamano contro l'invasore.

«Scusa, pensavo che questo fosse libero», Souta si coprì il volto con l'asciugamano.

«Potevi bussare!».

«Pensavo ti facessi la doccia, se avessi sentito l'acqua da fuori non sarei entrato».

Indossai il pigiama in fretta, cercando di ignorare il tremolio delle mani. «Non mi piacciono le docce».

LACRIME NEL LATTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora