𝒞𝒽𝓇𝒾𝓈𝓉𝑜𝓅𝒽𝑒𝓇

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Come puoi amare un altro
se non sai amare te stesso

Luchè


"Christopher, svegliati!"

"CHRISTOPHER!", l'urlo di Derek interrompe il mio sonno.
"Cosa c'è?", gli chiedo con ancora gli occhi chiusi.
"La mamma", mi scuote violentemente, "non si sveglia più".
"Oh merda".

Il freddo del davanzale dell'ospedale mi attraversa come una scarica gelida, costringendomi a tornare bruscamente alla realtà. Apro gli occhi, e le pareti bianche dell'ospedale, asettiche e spietate, sono una sofferenza per la mia vista stanca.

"Buongiorno", le nocche del dottore urtano tre volte contro la porta semi-aperta della stanza di mia madre. "Lei è il figlio della signora Annabella Cursano?".

"Si sono io", mi alzo lentamente da quella pietra fredda. Mi avvicino al letto di mia madre, i suoi occhi sono chiusi, il respiro quasi impercettibile. Il cuore batte forte nel petto, il suono dei macchinari che monitorano i suoi segni vitali riempie la stanza. Il dottore, un uomo di mezza età con capelli grigi e occhiali, tiene in mano una cartella e mi guarda con un'espressione seria ma comprensiva.

"Sua madre ha subito un'overdose di farmaci somministrati per via endovenosa. Siamo riusciti a stabilizzarla temporaneamente, ma il suo corpo sta cedendo sotto lo sforzo. La situazione è molto grave", il suo tono calmo e serio denota una professionalità fredda e apatica.
"Va bene", dico con troppa freddezza.

Di giorno, in giorno vedevo mia madre deperire sempre più ed il suo viso diventare sempre più pallido. Non mangiava più. Non parlava più. Stava scivolando via, un po' alla volta.

La notte me ne stavo lì, accanto al suo letto. Ma non provavo emozioni, non sentivo dolore o tristezza. Semplicemente aspettavo. Aspettavo che la sua vita, così ridotta a un filo, si spezzasse. Ogni respiro che faceva sembrava un miracolo, eppure mi ritrovavo a contare quei respiri, uno dopo l'altro, aspettando la fine si essi stessi.

"C-Chr-is...", il suo respiro era raschiante e irregolare. Mi giro di scatto e la fisso negli occhi. Debolmente, sposta la sua testa sul cuscino. "Ascolta", la sua voce è un sussurro spezzato, e fa una pausa per inumidirsi le labbra secche. "Dovete andare via da quella casa, il prima pos-si-bile".

"Perché?", esita alla mia domanda, come se stesse cercando la forza per continuare. "Perché?!", ripeto più aggressivo. Sapevo che quello che stava per dirmi poteva essere la risposta a tutte le mie domande.

Perché mio padre è violento. Perché mia madre si droga.

"Mamma, PERCHE'?". La foga di sapere mi consuma, e prima di rendermene conto, mi ritrovo a scuoterle le spalle, come se cercassi di estrarre quelle parole da lei con la forza.

Lei mi guarda, i suoi occhi colmi di dolore, di colpa, e anche di una paura che non avevo mai visto prima. Finalmente, con un ultimo sforzo, riesce a parlare, la sua voce debole e rotta. "È colpa mia... non ce l'ho fatta... dovete andare via ".

"Da cosa?", chiedo impaziente, "DA COSA?!". La mia voce stava aumentando, ma non riuscivo più a controllarmi. "Ci sono dei soldi... per voi. S-Sotto il tappetto c'è una piastrella..", la sua voce diventa sempre più bassa, a tal punto da dover avvicinare il mio orecchio alle sue labbra, "ci sono dei soldi per voi. Andate via". 

"PERCHE'?" ripeto, per la terza volta, ma questa volta la risposta non arriva. La sua voce si spegne lentamente, e i suoi occhi si chiudono con un'espressione di rassegnazione.

Il silenzio che segue è pesante e carico di tensione. Il monitor emette un segnale regolare e monotono, che riempie lo spazio vuoto lasciato dalla sua voce. La stanza sembra diventare sempre più fredda, e il peso delle parole non dette si fa insopportabile.

Gli infermieri irrompono violentemente nella stanza e iniziano a eseguire manovre di rianimazione. Attaccano il defibrillatore e applica elettrodi sul torace di mia madre e le iniettano una dose di adrenalina endovena. La macchina per la ventilazione meccanica viene attivata e gli sforzi per ripristinare il ritmo cardiaco diventano sempre più intensi.

"Compressioni toraciche, a ritmo costante," ordina un'infermiera, mentre la pressione applicata sul petto di mia madre è visibile e decisa. "Inizio la somministrazione di adrenalina. Monitorare il ritmo cardiaco e la pressione arteriosa."

Con un'apatia agghiacciante, mi dirigo fuori dalla camera, mentre gli infermieri cercano di fare l'impossibile per salvarla. Ma sapevo che orami non non c'era più nulla da fare. Mi appoggiai al muro del corridoio, il cuore che martellava nel petto, ma la mente incredibilmente lucida e distaccata.

Poco dopo, il dottore esce dalla stanza, il volto segnato da un'espressione grave. I suoi occhi incontrano i miei, e senza dire una parola, si avvicina con passo lento e deciso. "Mi dispiace," dice infine con voce controllata. "Non siamo riusciti a salvarla."

La sua dichiarazione è un colpo al cuore, ma io rimango imperturbato. La mia risposta esce secca e tagliente, guidata da una rabbia latente e da una frustrazione inarrestabile. "Non c'era bisogno di una laurea per capirlo," ribatto con freddezza.

Il dottore sembra colpito e abbastanza innervosito dal mio commento, ma non dice nulla. Solo un cenno di dispiacere passa sul suo volto mentre si allontana.

Torno a casa verso le 2:00 di notte, stanco ma ancora incapace di fermare i pensieri che mi affollano la mente. Senza fermarmi a riflettere, come se fosse un'abitudine qualsiasi, mi infilo una maglia e un pantalone della tuta. Con gesti meccanici, prendo le cuffiette, le inserisco nelle orecchie, e lascio che la musica inizi a pulsare.

Esco di casa e inizio a correre. Il freddo della notte mi colpisce in faccia, ma non rallento. Corro sempre più veloce, spingendo il mio corpo oltre il limite. I miei polmoni bruciano a ogni respiro, e i miei muscoli gridano per lo sforzo, ma non mi fermo.

Ma alla fine, anche il mio corpo cede. I muscoli si fanno pesanti, i passi più incerti, e il fiato si spezza in affanno. Mi fermo, piegandomi in due, con le mani sulle ginocchia, mentre cerco di riprendere fiato. Il dolore fisico, in qualche modo, è un sollievo rispetto al vuoto che sento dentro.

Alzo lo sguardo e mi ritrovo davanti a casa di Meri. La casa è avvolta nel silenzio della notte, le luci spente. Rimango immobile, fissando il cancelletto in ferro battuto. Con un sospiro, tiro fuori il telefono e, dopo settimane di disconnessione, riaccendo finalmente la connessione Internet.

Dopo una valanga di notifiche accumulate, trovo finalmente la chat con Meri. I suoi messaggi sono arrivati a ondate: ne aveva inviati almeno due o tre al giorno, per un paio di giorni.

Merda.

Le gocce di pioggia iniziano a scendere con sempre maggiore intensità, accelerando rapidamente. Infilo il telefono nella tasca e torno verso casa.

𝑩𝒐𝒓𝒏 𝑻𝒐 𝑳𝒐𝒗𝒆Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora