Il mostro

139 14 3
                                    

JEM
Esco fuori dall'ennesimo incubo. Mi guardo intorno, la mia vista sta migliorando, così come le mie energie. Da quanto tempo sono qui? Giorni, settimane? Ho perso la cognizione del tempo. C'è un orologio sulla parete a sinistra, ma non riesco a distinguere le lancette. Sono ancora troppo debole. Debole, debole, debole. Me lo ripeto di continuo, ormai è la parola che sta in cima alla mia classifica personale delle 'parole quotidiane'. Sono stanco di esserlo. Prima non era così, non sono mai stato debole. Ero tutt'altro che fragile e privo di forze. Ero il più agile, il più veloce e quello più furbo, capace di uscire da qualunque situazione delicata in cui io ed i miei compagni ci cacciavamo. Da due anni a questa parte però le cose sono cambiate, una discesa agli inferi lenta e costante, sofferente. Col tempo ho cercato di farci l'abitudine alla perdita di quella versione di me stesso così semplice e chiara, umana, per lasciare spazio a quella privata di tutto. Mi chiedo se il vero io non sia questo Jem, che implora piangendo la fine delle torture, che preferisce porre fine a tutto piuttosto che affrontare un altro giorno, che non oppone più resistenza a quello che gli viene fatto, come un vecchio rassegnato ad accettare il proprio destino. Eppure sei riuscito a scappare, ricordo a me stesso, ancora poco capace di esserne pienamente consapevole. Sono riuscito a scappare, sì. Sono qui, in una stanza sconosciuta con gente sconosciuta, intrappolato nel mio stesso corpo troppo lento e provato da seguire i miei comandi. Ma comunque vivo. Fuori da lì. Eppure della mia fuga non riesco a gioire, il prezzo che ho pagato è stato troppo alto e la sicurezza raggiunta troppo fragile, temporanea e poco concreta.
Sono immerso così tanto nei miei pensieri che mi ci vuole un po' per capire che stanno bussando alla porta. La mia testa si gira di scatto, il corpo in allerta. Non può essere quella ragazza, Katie; lei non bussa. La porta si apre ed alla vista di un uomo e una donna che entrano avvicinandosi lentamente il panico si impadronisce di me, facendomi retrarre nel cuscino che ho alle spalle, quasi che pregassi di scomparire in esso. "Sono venuti a prendermi", penso con una calma inquietante. "Guarda Jem, come finisce la tua vita". Ma io non voglio morire, non ora che ho trovato un posto all'apparenza sicuro. Cerco di alzarmi, il cuore che batte furiosamente, ma finisco solo con l'intricarmi di più nelle coperte. Quelle coperte che prima mi hanno protetto e che ora mi stanno incastrando.
-Aiuto! -cerco di gridare, ma dalla mia bocca non esce alcun suono. La donna avanza. È finita. Chiudo gli occhi in attesa.
-Calmati. - sussurra lei avvicinandosi ancora.
-Siamo i genitori di Katie. -interviene in fretta  l'uomo. Apro gli occhi e lui ripete la frase, con entrambi i palmi scoperti come chi si avvicina piano ad una belva inferocita e terrorizzata.
Mi costringo ad inspirare ed espirare profondamente, sbattendo furiosamente le palpebre per mettere meglio a fuoco.
-Non vogliamo farti del male. - riprende la donna con dolcezza. -Volevamo solo presentarci, fin'ora Katie ha insistito a occuparsi di te personalmente. Ti abbiamo portato un altro po' d'acqua, hai bisogno di rimanere idratato.
Prendo la bottiglia guardandola, in attesa. Non so per quanto tempo rimaniamo così ma ad certo punto si scambiano un'occhiata veloce, lui annuisce piano, come se avessero appena raggiunto un accordo nella loro muta conversazione e si gira verso di me.
-Ragazzo, scusa se te lo chiedo, sei muto?
Rimango un attimo spiazzato, non era questa la domanda che mi aspettavo. Scuoto la testa, certo che non sono muto.
L'uomo annuisce. -Forse lo shock o un grido prolungato ti ha danneggiato temporaneamente le corde vocali. Hai urlato, di recente?
Ripenso alle urla che ho emanato nella stanza 3A, nella cella in cui stavo, in ogni singolo posto, in ogni singola stanza. Non posso far altro che annuire.
-Sono sicuro, anzi certo, che ritornerai a parlare. Lavoro in ospedale, sai?
Non so che dire, non che possa proferir parola, quindi mi limito solo a fissarlo.
Lui mi sorride, capisco dai suoi occhi che è incerto se avvicinarsi o meno. Decide di no e dentro di me tiro un sospiro di sollievo.
-Hai bisogno di fare un bagno. Ti ho preparato l'acqua nella vasca. Se vuoi venire... - dice la donna togliendomi all'improvviso le coperte di dosso. Il suo sguardo cade inevitabilmente sul mio corpo e io mi sento terrorizzato ed in imbarazzo. Mi vergogno tantissimo.
-Scusa, caro, non volevo... non intendevo...
Spalanco gli occhi, non so se per il caro o per la mortificazione evidente nei suoi occhi, in ogni caso non sono abituato a questa gentilezza. E poi si sta scusando? Con uno come me? Con un umano?
Lei sorride ancora mortificata e mi porge timidamente una mano per aiutarmi ad alzarmi. Voglio mettermi in piedi da solo, camminare da solo, almeno questo voglio farlo in autonomia.
Il bagno grazie a Dio è proprio affianco alla stanza, sulla destra, ed è perfetto dal momento che già non ce la faccio più a stare in piedi.
La madre di Katie mi indica l'asciugamano e tutto il necessario poi se ne va chiudendosi piano la porta alle spalle, deve aver intuito che non le avrei permesso di aiutarmi. È bello il bagno, spazioso con uno specchio lungo sulla parete di destra ed un altro sopra il lavandino in ceramica, illuminato da tanti piccoli faretti. Passo davanti allo specchio, risoluto ad evitare di lanciare anche una minima occhiata al mio riflesso, chissà in che condizioni sono, non mi specchio da due anni e non sono sicuro di scoprire chi sia questa nuova versione così povera ed insignificante di me stesso. Mi fermo a metà stanza. Non puoi evitarti per sempre, Jem, mi dice una voce pacata ma decisa nella testa.
Inspiro profondamente, le mani che si aprono e si chiudono, come un pugile pronto a iniziare il suo incontro.
È solo uno specchio. Sei soltanto tu, mi ripeto mentre ad occhi chiusi torno indietro e mi posiziono davanti allo specchio. Lentamente, apro piano gli occhi, mantenendoli socchiusi in modo da essere pronto a rinchiuderli nel caso in cui ciò che sto per vedere non mi piace. Un grido soffocato mi rimane in gola. Richiudo velocemente gli occhi per poi aprirli di nuovo perché quello che sto vedendo è talmente mostruoso e scioccante da lasciarmi paralizzato.
Dio, che cosa sono diventato? Sono vivo, almeno? Sono pelle e ossa. Così logoro, i capelli arruffati e sporchi, gli zigomi mostruosamente sporgenti, il corpo pieno di lividi e di graffi e incredibilmente magro, non sembro neanche più un essere umano. Vorrei sparire. Questo non sono io. Non può essere.
Lacrime calde si fanno strada scendendo dagli occhi, l'unica cosa che dimostra che sono vivo. Odio piangere. È una cosa da deboli. Ma è proprio questo che sono. Un debole.
Mi giro dando le spalle al mostro che sono diventato e con estrema lentezza entro nella vasca. Un sospiro di sollievo mi esce dalle labbra secche mentre mi lascio cullare dall'acqua tiepida, lavando via lo sporco che sento di avere sia dentro che fuori. Chiudo gli occhi e mi immergo completamente, immaginando di uscirne purificato, nuovo.
Non so quanto tempo rimango lì ma alla fine, quando ormai l'acqua è fredda, mi decido ad uscire. Infilo una maglietta e i pantaloni di un pigiama blu, annusando l'odore di pulito emanato dai vestiti.
Quando esco dal bagno mi dirigo direttamente nella stanza occupata da me, non me la sento di dire mia, e mi sdraio sul letto. Le lenzuola sono pulite così come lo sono le coperte che una figura dai capelli color cioccolato mi mette addosso, sussurrandomi "Buonanotte" mentre io scivolo nel sonno.

I Doni immortali Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora