Lo Stato

154 17 5
                                    

KATIE
Apro piano la porta cercando di non fare alcun rumore e sbircio attraverso la fessura. È agitato, si muove in continuazione, emettendo mugolii di dolore. Sono tentata di andare a svegliarlo per tranquillizzarlo, ma mia madre mi posa una mano sulla spalla e mi fa segno di seguirla.
-Lascialo riposare. -dice mentre ci dirigiamo in cucina.
-Ma non riposa! Ha un incubo dopo l'altro. -protesto incrociando le braccia e appoggiandomi al bancone, in attesa di una sua approvazione per andare di là e svegliarlo.
-Povero ragazzo. - sospira lei sistemandosi una ciocca di capelli castani dietro l'orecchio.
-E se gli dessimo un calmante? -propongo titubante, il cervello che tenta di trovare quante più soluzioni possibili.
Mamma scuote la testa mentre ancora sto parlando, come se fosse del tutto fuori questione.
-Preferisco non dargli niente. Non so se il suo corpo sia in grado di reggere.
Annuisco guardandomi la punta dei piedi, so che ha ragione ma vorrei poterlo aiutare davvero.
-Veniva dal bosco. Chissà per quanto ha corso, da chi è scappato... - dico alla fine. Ci sto pensando da quando io e papà l'abbiamo caricato in macchina e portato a casa. Sono passati 5 giorni e ancora non è in grado di stare abbastanza sveglio per potergli porre qualche domanda. Non che mi abbia mai risposto alle domande volutamente casuali e banali che gli ho posto. Ma quegli occhi grigi che mi guardano pieni di terrore ad ogni movimento brusco che faccio mi fanno venir voglia di afferrarlo per le spalle, scuoterlo piano implorandolo di parlarmi e dirmi chi gli ha fatto questo, chi l'ha spaventato a morte e ridotto così, da che posto disumano viene e come ha fatto ad attraversare il bosco, cosa si nasconde lì dentro da terrorizzarlo così.
-Katie -mormora mia madre con una sfumatura di rimprovero nella voce, come se mi stesse leggendo nel pensiero, cosa che in effetti è capace di fare. - Non è prudente fare tante domande. Lo Stato non apprezza la curiosità, lo sai.
" Già, così possiamo rimanere per sempre dei felici e fedeli ignoranti", penso ma questo decido di tenermelo per me. Non abbiamo telecamere e microfoni in casa, ma lo Stato è particolarmente abile nel scoprire chi cerca di uscire dalla propria bolla d'ignoranza. Meglio tenere la bocca chiusa, almeno i pensieri rimangono miei.
-Può stare però da noi, no? - chiedo tentando di non far trapelare quanto la cosa per me sia di vitale importanza.
-Ne parlerò con tuo padre. -promette mamma porgendomi un altro vassoio per lui, capendo la necessità che ho di andare a vedere come sta.
Quando entro nella stanza è sveglio.
-Un altro incubo? -domando anche se non sono sicura che mi abbia sentito. Non ha occhi che per il vassoio.
Glielo porgo sedendomi lentamente sul bordo del letto. Noto che il materasso non si deforma sotto il suo corpo, come se non pesasse affatto, come se fosse solo un ologramma piazzato lì, nel mio letto, nella mia stanza. Finisce di mangiare immediatamente, ma non alza lo sguardo. O meglio, lo fa, ma evita di guardarmi.
Ho mille domande da porgli ma credo che non riceverò risposte tanto rapidamente, e sembra proprio che con questa cosa ci devo fare l'abitudine.
Mi porge il vassoio tenendo lo sguardo basso, si sdraia e si addormenta di nuovo. Io rimango a guardarlo un altro po' , è come se mi avesse concesso di farlo, come se dicesse: Fai pure, resta se vuoi. Basta che non fai niente di brusco ed improvviso.
Ha i capelli scuri, nerissimi, incollati alla fronte per il sudore. Sembra morto. Davvero. È pallidissimo, come se non avesse visto la luce del sole per anni, come chi è stato prigioniero da qualche parte.
E poi, d'un tratto, davanti agli occhi mi appare il tassello che cercavo. È questo quello che è: un prigioniero evaso.
È pericoloso? È un criminale? Non sembra, quegli occhi dal colore così insolito non sembrano minacciosi. Sono degli occhi grigio ghiaccio ma non trasmettono freddezza, sono... solo misteriosi. Vorrei vederglieli di nuovo. Fargli qualche domanda e strappargli qualche risposta. Sospiro sconsolata ed esco dalla camera.

*

Mio padre è appena tornato dal lavoro. Ogni persona, dai 20 anni in su deve lavorare per lo Stato. Qui ognuno ha un compito diverso. Mio padre, per esempio, lavora in ospedale dove per ospedale non si intende "luogo dove vengono curate le persone malate", come veniva inteso tempo fa, ma "luogo dove si studia come non far ammalare le persone". Non so perché abbia mantenuto lo stesso termine nel tempo, è una domanda a cui nessuno sa rispondere. È così e basta. È una delle poche cose che ignoro, dal momento che non è di primaria importanza.
-Come sta?- mi domanda mentre si siede al tavolo rettangolare con un sospiro di sollievo per essere a casa come fa sempre dopo una giornata di lavoro.
-Mangia. E dorme. - decido che parlare a mo di telegramma sia il modo migliore per evitare di far trapelare troppe emozioni.
Papà annuisce, guardandomi in un modo che mi fa capire che non si sta bevendo la mia messinscena.
Silenzio. Aspetto che aggiunga qualcos'altro tipo 'Appena è in grado di stare sveglio per più di un quarto d'ora lo abbandoniamo al suo destino' ma lui non dice niente. Ci guardiamo e basta. Io, mamma e papà. Alla fine non resisto più.
-Allora può rimanere?
-Sì.
-Anche quando comincia a riprendersi? Non lo abbandoneremo al suo destino non appena sarà in grado di stare sveglio per più di un quarto d'ora, vero? - esordisco respirando velocemente, temendo la risposta.
-Santo cielo, che ti salta in mente? -domanda mio padre scambiandosi una rapida occhiata con mia madre.
Butto fuori il fiato che avevo trattenuto e sorrido.
-Grazie.
Altro sguardo tra i miei. A volte è snervante questo giochetto che fanno loro due, il "comunicare con gli occhi" . Se qualcuno pensa che sia solo un modo di dire dovrebbe guardarli e ricredersi.

Il resto del pomeriggio passa tranquillo. Occhi-Grigio-Ghiaccio si sveglia ogni quarto d'ora agitandosi, poi a intervalli regolari mangia, beve e sprofonda nel sonno di nuovo.
Sto guardando distrattamente la tv quando mi squilla il telefono. Lo afferro e ordino al mio apparecchio di accettare la chiamata.
-Signorina Connor è attesa in palestra tra mezz'ora.
Click. Neanche il tempo di rispondere. Alzo gli occhi al cielo, stufata. È il mio mentore.
Lo Stato è convinto che il mio sia un "dono in grado di difendere e combattere al tempo stesso, eccellente per proteggere". Sì. Come no. Il fatto è che il mio dono è... banale. Ma secondo il mio mentore, se così si può chiamare uno che sgretola la mia autostima come se stesse rompendo un vetro ogni volta che ne ha l'occasione, si tratta solo di pratica: quindi, solo e soltanto per me, ci sono delle ore extra di allenamento. Gioisci, Katherine.
Prendo lo zaino, avviso mia madre ed esco dirigendomi verso la palestra, pensando a tutto tranne che al mio allenamento.

I Doni immortali Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora