Ripresa

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JEM
La guardo. Si è appena addormentata? Così, di punto in bianco? Mi scosto per farle un po' di spazio, non che io ne occupi molto, e per terra intravedo uno zainetto. Dov'è andata? E cosa ha fatto per stancarsi così? "Non sono affari tuoi" , mi rimprovero, eppure voglio saperlo. Mi interessa. Sono strano con i miei pensieri a volte così crudi e altre così... insensati. Eppure il fatto di non pensare costantemente al momento in cui mi troveranno, perché lo faranno ne sono certo, mi piace; una persona non può provare solo paura. Certo, la cosa verrebbe smentita se prendessi in considerazione il posto da cui sono scappato, ma anche un umano terrorizzato e torturato come me può provare altre emozioni. È strano e sorprendente. Però bello. Mi rendo conto che mi piace il fatto che sia venuta dritta da me per chiedermi come sto, solo due persone nella mia vita si sono realmente interessate a farlo.

*

Ti abbiamo trovato. Stiamo arrivando.
-NO! No, vi prego, per favore lasciatemi! -supplico disperato.
Qualcuno mi scrolla la spalla. Apro gli occhi. La faccia della madre di Katie mi si piazza davanti. Dalla mia bocca escono solo mugolii.
-Tranquillo. - sussurra lei tenendomi fermo per le spalle e piantando i suoi occhi nei miei.
Annuisco mettendomi a sedere. Lei mi porge un bicchiere d'acqua. La guardo, la mia vista è migliorata parecchio. È in vestaglia, i capelli arruffati come di chi si è alzato dal letto in fretta e furia.
-Sono le 2 di notte, caro. -mi mormora leggendomi nel pensiero. Ma sarà stata solo una coincidenza, non può farlo, vero?
Lei sorride, lasciandomi delicatamente le spalle. Si crea un silenzio imbarazzato, può andare se vuole ma non so come farglielo capire senza sembrare maleducato.
-Vado. Se ti serve aiuto, verrò subito.
Okay, penso mentre lei se ne va lasciando la luce de della lampada che ho accanto accesa, sono quasi certo che sia in grado di leggere nel pensiero. Dopotutto questa è una casa di dotati, no?
Rimango a guardare per l'ennesima volta la stanza in cui mi trovo, non ho alcuna voglia di tornare a dormire. C'è un grosso armadio che occupa l'intera parete di fronte a me ma senza maniglie per aprire le ante. Alla parete di fianco sono appese delle foto, tutte di Katie: che sorride, che corre, che ride, che è pensierosa, che legge... Katie in tutte le salse. Però vederla immortalata quasi in ogni momento non mi dà fastidio, anzi, mi piace guardare le sue foto. È bella, piena di vita. Si vede che ha alle spalle una vita tranquilla, al contrario della mia. Sotto le foto c'è una scrivania con dei libri posati sopra. L'altro muro, quello sulla mia destra, invece sembra vuoto, tolto il piccolo scaffale contenente probabilmente altri libri, con sopra una... cosa; è formata da un mini-piedistallo e un piccolo rettangolo sopra. Mai visto qualcosa del genere.
Nei miei ultimi due anni la mia stanza intanto non era mia perché con me c'erano altri tre ragazzi umani, e consisteva in una cella con mura spesse e umide e per terra quattro materassi rotti.
Ripenso a quello che ho passato lì e l'angoscia si impadronisce di nuovo di me. Quel luogo, quel posto è diventato parte di me, mi rendo conto che si insinua in ogni momento della mia piccola pausa che fingiamo si chiami vita. Non è il massimo avere sempre paura di soffrire. O morire.

*
È mattina. Sono qui da quattro settimane e mezzo. Katie non sta bene: ultimamente ha trascorso un sacco di tempo fuori e quando tornava era talmente stanca che crollava appena si sedeva. I suoi non hanno dato molta importanza alla cosa, fino a quando non sono stati informati che la loro figlia è collassata mentre era a scuola. Dotata o meno, le sue riserve non sono illimitate, così lo Stato le ha imposto di prendersi qualche giorno di riposo.
-Ciao. - dice Katie entrando nella mia, sua, stanza con i capelli aggrovigliati che le circondano un viso pallido con tanto di occhiaie. Ha gli occhi lucidi per la febbre e la cosa mi terrorizza, non poco. Al centro ho visto morire ragazzi a causa di un semplice raffreddore, il loro corpo era talmente stremato, il sistema immunitario così debole da non riuscire a difenderlo. So che lei non può morire per un po' di febbre ma dopo quello che ho visto e vissuto io è facile prendere l'ipotesi sul serio.
Katie si siede sul bordo del letto, sbadigliando.
-Ti va di alzarti un po'?
Annuisco, più che altro per farle quanto più spazio possibile nel caso in cui rischi di addormentarsi di nuovo. Mi alzo e prendo a fare il mio solito giro nella stanza. Mi giro storcendo la bocca per sorridere a Katie e lei ricambia alzandosi e indicandomi la scrivania. Io annuisco e mi incammino verso di essa, con la schiena ben dritta. È bello poter camminare eretto. Al centro lo facevo solo con la schiena incurvata e nelle ultime settimane non ce la favevo a reggermi molto bene. Ho ancora un po' di affanno ma ce la faccio a raggiungere la scrivania. Ce la faccio. Devo.
Quando mi siedo butto fuori l'aria trattenuta. Katie prende una sedia e si siede al mio fianco, il viso raggiante nonostante la stanchezza notevole.
-Hai fatto progressi Occhi-Grigi.
-Jem. Mi chiamo Jem non Occhi-Grigi. -una volta possedevo un certo senso dell'umorismo.
Katie spalanca la bocca, fissandomi.
-Oh mio Dio! -sussurra portandosi una mano alla bocca.
Ed è solo in questo momento che mi accorgo di aver parlato. Ho parlato! Con la voce di un estraneo, bassa e rauca e gracchiante poco m'importa, ho parlato.
-Ripetilo. -mi incita lei, ogni traccia di stanchezza scomparsa dal suo volto.
-Mi chiamo Jem. - dice la voce estranea proveniente dalla mia bocca.
-Tu hai... parlato. Lo hai fatto. Mio Dio! -è entusiasta, è evidente. E io non capisco. Perché lo è? Poi mi ricordo che qui non sono al centro, la gente in questa casa si preoccupa per me. Ma io non ci sono abituato.
-Jem... - ripete lei con un sorriso enorme e mi butta inaspettatamente le braccia al collo, stringendomi forte.
Io mi irrigidisco. Non voglio ancora che mi tocchi, non voglio nessuno che senta la magrezza del mio corpo e poi sono abituato a provare dolore nel momento in cui una persona mi si avvicina molto. Lei se ne accorge e si ritrae imbarazzata.
-Scusami. A volte faccio fatica a contenere l'entusiasmo. - arrossisce evitando di guardarmi. -Quindi Jem, ehm... quanti anni hai?
-18. - dico, la gola che inizia a farmi male. Non posso parlare a lungo, evidentemente.
Lei annuisce soddisfatta, come se stesse confermato tra sè e sè una supposizione già fatta.
-Io ne ho 17. -mi informa giusto per rompere il silenzio.
Si gira verso la finestra tra le sue innumerevoli foto ed è allora che lo vedo. È piccolo e sbiadito. Ma c'è. Mi si torcono le budella.
-Che cos'hai lì? - chiedo indicandole lo zigomo destro.
Lei sembra sconcertata, portandosi la mano nel punto del suo tatuaggio, come a proteggerlo. -Il simbolo del mio dono.
- Sei quel tipo di dotata. - la mia non è una domanda. La paura mi assale.
-Sì. Perché tu no? -ride.
La sua espressione cambia vedendo la mia faccia. Capisce.
-No. Non può essere.
Si rende conto che invece è eccome.
Il mio respiro accellera.

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