- 34 - Let's Write It (Pt. 2)

156 21 7
                                    

«Allora sei proprio dura!», esclamò Ricky esasperato dalla mia tenacia.

«Tu non puoi capire, devo farlo.», risposi, per l'ennesima volta, «Tu puoi tranquillamente tornare in America con gli altri, io vi raggiungerò dopo.»

Rick sbuffò alzandosi dal letto dell'hotel e sistemando le valige vicino la porta.
«Sei un caso perso, neanche voglio più capire perché rimani qua.»

«Fai bene.», lo apostrofai.
Ed effettivamente lo fece, se ne andò.
Lui, Devin, Giulia e la piccola Hazel partirono il giorno dopo, lasciandomi in Italia a mettere in atto il mio piano.

La sala d'attesa era ormai svuotata. Era una stanza anonima e piuttosto noiosa.
Da una delle porte in vetro opacizzato uscì l'anziana che entrò una quindicina di minuti prima.
Entrai nell'ufficio comunale chiedendo di poter parlare con l'assistente sociale.
L'impiegato mi squadrò esitante, ma non fece domande e mi indicò la porta a cui bussare, dicendomi che probabilmente poteva riceverni subito, infatti dopo poco che bussai fui accoltà all'interno da un uomo sulla sessantina dall'aspetto trasandato ed annoiato.

«Dica.», mi indicò una sedia in plastica e mi sedetti, togliendo la giacca. Il caldo là dentro era soffocante.

«Ricorda il caso di sei, sette anni fa riguardo la famiglia Fierca?», chiesi titubante, andando subito al nocciolo della questione.

«Oh sì, me ne occupai personalmente. Intende l'omicidio del signor Fierca da parte di quella pazza di sua moglie?», domandò facendomi innervosire parecchio.

Lo fulminai con gli occhi, stringendo la mascella e cercando di non lasciarmi sfuggire qualcosa di troppo avventato.
«Magari sta giudicando male.», mi limitai a dire.

Frugò in una cassettiera grigia in ferro, un archivio stracolmo di fascicoli anche preistorici. Diresse il suo sguardo sulla lettera "F".
«Non penso di sbagliarmi.», rispose con noncuranza, senza prestarmi attenzione visiva.

Non penso di potermi trattenere dallo sfigurarti., rigirai le sue parola.
Strinsi i pugni guardando, con disprezzo, la sua nuca coperta da una capigliatura rada e grigia.
«Mi servirebbe sapere dove si trova ora Gabriele Fierca, il bambino.», mi feci avanti, dichiarando ciò che volevo sapere.

«Sta con gli zii materni, in Svizzera.», rispose leggendo il fascicolo che aveva in mano, teneva il segno passando l'indice sotto le parole stampate.
Continuò ad esaminare il resoconto del caso con un sorrisetto gustato. Rivoltante.
«Pazza.», commentò ancora chiudendo i documenti.
Non doveva essere un bravo assistente sociale se rivelava informazioni private con così tanta leggerezza e giudicava in quel modo; ma poco importava, per me era meglio così.
Odiavo quel posto, eccessivamente caldo, soffocante e grave d'aria pesante - quasi maleodorante.

«Posso sapere dove, esattamente?», domandai il più cordialmente possibile, desiderando di togliergli quel ghigno irritante.
L'uomo sbuffò e guardò sul suo arcaico computer. Non potevo crederci, che razza di incompetente da un indirizzo ad un'estranea?
Mi porse un post-it con scritto il luogo in cui si trovava la casa di Gabriele e ringraziai l'assistente sociale, stringendogli con riluttanza la mano.
Si era addirittura curato di dirmi che la casa di trovava di fronte ad una farmacia, assurdo.

Presi l'auto di mia madre e mi diressi a Lugano chiedendo più volte indicazioni ai passanti per raggiungere il recapito. Parcheggiai proprio davanti alla farmacia e attraversai la strada bussando alla porta di una piccola e graziosa casa.
Mi aprì un bambino di circa dieci anni, non molto alto per la sua età, ma con lo stesso inconfondibile sguardo di Giunis. I suoi capelli erano appena più chiari e corti, con un accenno di riccioli.
Gabriele era veramente un bel bambino, molto simile alla madre e con una tale gentilezza che faceva spuntare il sorriso.

City LightsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora