Capitolo 13

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Dovergli dire addio fu la cosa più difficile che abbia mai dovuto dire a qualcuno. Quella stupida parola. Stavo quasi per tornare indietro da lui. Quasi. Con una forza di volontà che non credevo possibile salii in macchina. Lo guardai un ultima volta dal finestrino. Lì in piedi che mi fissava con lo sguardo triste. Distrutto. Senza maglietta perché la stavo indossando io. Quel silenzio infernale che ci avvolgeva e quegli occhi che mi supplicavano di restare e io con lo sguardo che gli supplicavo di non chiedermelo. L'auto partì e svoltò e in pochi secondi Dylan svanì dietro l'angolo. Questa volta per sempre. Appena lo vidi sparire mi venne una fitta al cuore. Smith mi parlò. Io lo sentii, ma non ascoltai. Ero troppo concentrata sui miei pensieri. Non so se avevo fatto la cosa giusta o sbagliata, ma di sicuro gli avrei complicato le cose se fossi rimasta. Eravamo troppo diversi. Lui era un angelo e io un demone. Era un ragazzo stupendo, di soli 23 anni con tutta una vita davanti che meritava di vivere con una persona stupenda quanto lui. Io ero solo una puttana-ladra-tossica condannata a fare la puttana-ladra-tossica per il resto della vita. E fu lì che mi resi conto che il problema non era Smith, ma ero io. Come aveva detto Dylan questa era la mia vita e ne sono io l'unica responsabile.

Ad un certo punto, in mezzo a tutto quel discorso Smith disse una cosa che mi distolse da tutti i miei pensieri:"Quindi la partenza per l'Italia è stata rimandata a domani. È meglio non modificare i piani. Adesso che Luke ti ha rivelato di sapere tutto si aspetterà che cambiamo progetti. Invece noi dobbiamo fare come prestabilito. In fondo non può ostacolarci più di tanto. La polizia è l'ultimo dei nostri problemi. Prendiamo l'aereo alle 20.00, così per le 9.00 circa saremo a Napoli, il paese dove ci aspettano i soci.". Non ci stavo capendo nulla. Non avevo seguito il discorso precedente ma io non dissi niente. Semplicemente annuii. Non sapevo più cosa pensare. L'aspetto positivo era che in Italia Dylan non avrebbe mai potuto raggiungermi, né io avrei potuto raggiungerlo, ma l'aspetto negativo è che questo è una merda. Abbassai il viso, e misi il naso sotto la maglietta per respirare il profumo lasciato da Dylan. Nel momento in cui lo feci un colpo mi malinconia mi pervase lo stomaco. Smith mi riportò nella casetta sperduta del suo socio e mi rispiegò il piano nei minimi dettagli, tutto ciò che sarebbe dovuto succedere fino alla fine. Era circa mezzogiorno, ma non mangiai. Non avevo fame. Ogni sensazione era coperta dalla mancanza di Dylan. Non mi ero ancora tolta la sua maglietta. Era molto semplice, nera con una scritta bianca sul petto. Mi arrivava poco sotto le cosce. Non volevo che il suo profumo se ne andasse, era tutto ciò che mi rimaneva di lui.
La giornata passò in fretta, dormii tutto il tempo. Feci un sogno strano quel pomeriggio.

Ero in una stanza buia, non riuscivo a vedere niente, il vuoto totale. Ero seduta su una superficie particolarmente morbida, probabilmente un divano. Ad un certo punto si accese di colpo una luce bianca. Mi dovetti coprire gli occhi all'inizio e quando mi abituai mi guardai in giro. Ero in una stanza piena di specchi. Erano talmente alti che non capivo fin dove arrivassero ed erano disposti in modo da circondarmi completamente. Quando guardai nel primo specchio vidi un neonato che piangeva nelle braccia di una donna di cui non si vedeva il volto e sopra di essi comparve una scritta: 18 maggio 1998, la mia data di nascita. Nel secondo specchio c'era riflessa una bambina. Era seduta su un lettino di ospedale. Accanto a lei c'era una donna molto felice che teneva in braccio un neonato. Erano mia madre e mia sorella. Anche qui comparve una data, questa volta 18 luglio 2000. L'immagine successiva fu quella di una famiglia che giocava e si divertiva insieme, la mia famiglia. Era datata 30 novembre 2004. Successivamente vidi una bambina che correva in giro piangendo mentre gridava:"MAMMA, PAPÀ". La data era 22 agosto 2005, il giorno della morte dei miei. Le tre immagini successive erano tutte uguali, l'unica differenza era l'età della ragazza. Prima 11 poi 15 ed infine 18 anni. Lei era seduta su una panchina mentre guardava in basso con lo sguardo assente e le lacrime agli occhi. In quei tre non comparve nessuna data ma semplicemente la scritta rossa "RIP". Ad un certo punto dietro di me comparve un ragazzo che cancellò quelle scritte ed entrò nell'ultimo specchio come se fosse un portale. L'immagine cambiò; la ragazza non era più sola, ma era accanto a lui e divenne felice. Non capii chi fosse quel ragazzo. Il suo volto era sfocato.
Improvvisamente un tonfo fece rompere in mille pezzi li specchi. Al loro posto rimase un enorme buco nero, dal quale uscì Smith, ma era diverso. Era 10 volte più grande di me. Mi disse:"Dal paradiso si può scendere all'inferno, ma se sei giù non c'è speranza che tu risalga." fece una perfida risata, riuscivo a vedere la goduria nei suoi occhi.

Mi svegliai di colpo, sussultando. Guardai le ore. Erano le 18.00. Avevo dormito tutto il pomeriggio. Ero molto confusa da quel sogno. Non ne capivo bene il significato, ma non mi sforzai più di quel tanto di ragionare. Ero sola in camera. Controllai di aver messo tutto nella valigia, dopodiché mi sporsi leggermente dalla finestra e mi accesi una canna. Chissà se le cose sarebbero andate secondo i piani di Smith. Lui non sbaglia un colpo, quindi probabilmente filerà tutto liscio.

Quando fu ora di partire salimmo in macchina e partimmo verso la casa di un amico di Smith, un uomo con una compagnia aerea privata.
Mi chiesi dove fosse Dylan. Se fosse tornato a Boston o se avesse deciso di fermarsi. Mi mancava troppo. Avevo ancora addosso la sua maglietta. Ad ogni respiro entrava in me quel meraviglioso profumo che ogni volta mi dava un colpo al cuore.
Il viaggio non durò molto. Arrivammo in un posto strano. Sembrava un aeroporto però molto più piccolo. C'erano 4 garage con dentro degli aerei e di fianco ad essi una lunga strada asfaltata con delle luci colorate ai bordi. Tutta questa zona era recintata e dentro il confine c'era una casetta in legno. Smith si diresse verso il terzo garage. "Hey Smith!". Lo salutò con voce squillante un uomo di circa 30 anni. Sembrava così spensierato, con la sua camminata fiera e quel sorriso a 32 denti. Pensai che si fosse fatto una canna. "Come andiamo Joe! Lei è la ragazza di cui ti ho parlato, Tyra.". Mi salutò con un entusiasmo quasi esagerato considerata la situazione. "Se siete pronti possiamo partire anche subito.". Io mi guardai in giro con aria spaventata, come se cercassi una via di fuga. Non volevo salire sull'aereo. Evitai di lamentarmi, perché qualsiasi cosa avessi detto Smith sarebbe comunque riuscito a farmi salire. Lasciammo i nostri bagagli in una specie di baule nella parte posteriore dell'aereo. Era molto strano. Era piccolo come aereo, c'era il posto per pilota, copilota e soli sei sedili per i passeggeri. Joe salì al posto del pilota, il socio di Smith che ci accolse a New York (di cui non sapevo ancora il nome, ma credo di aver sentito Smith chiamarlo un paio di volte Jack) si sedette al post del copilota e io andai dietro con Smith. Non posso negare che ogni volta che ero sola con lui mi sentivo a disagio. Forse perché le uniche volte in cui eravamo soli facevamo sesso. Quando Joe mise in moto il veicolo un colpo d'ansia mi pervase da testa a piedi. L'aereo lentamente si mosse fuori dal garage. Fece manovra per mettersi in posizione di partenza, in fondo alla lunga strada d'asfalto. Fece partire l'aereo. Più avanzava più prendeva  velocità, sia il veicolo che il mio cuore. Ad un certo punto la forza di gravità mi schiacciò leggermente sul sedile quando l'aereo si staccò da terra. Iniziai a ripetermi che sarebbe andato tutto bene, ma non serviva ad alleviare la mia angoscia. Avrei fatto qualsiasi cosa che mi avrebbe distratto. Ci allontanavamo sempre di più, salivamo e salivamo e l'ansia saliva con l'aereo. Joe raddrizzò il veicolo che anzi che continuare a salire si stabilizzò e volò dritto sopra le nuvole. Continuò tutto tranquillamente e stavo iniziando un po' a calmarmi, ma non del tutto. Provai a dormire, ma non ci riuscii. E tra la musica e le chiacchierate si fece 00.00. Mancavano ancora 8 lunghe ore. Dovevo dormire, altrimenti il viaggio sarebbe durato all'infinito. Chiusi gli occhi e mi rilassai. Grazie al cielo mi addormentai.

Quando riaprii gli occhi guardai l'ora, erano le 5.00, mancavano ancora 3 ore. Io non avevo più sonno. Poco tempo dopo vidi Smith schizzare preoccupato verso la cabina di pilotaggio. Mi tolsi le cuffiette e lo raggiunsi per andare a vedere cosa stesse succedendo. Joe era pallidissimo. Lo vedevo maneggiare i vari comandi e a primo impatto sembrava che lo stesse facendo a caso fino a quando disse:"Cazzo, c'è qualcosa che non va.".

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