IX

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Il processo, a discapito dei tempi notoriamente lunghi della giustizia penale, si concluse piuttosto velocemente poiché Alessandro decise di assumersi la piena responsabilità del fatto, senza cercare in alcun modo di accampare scuse o di ostacolare il regolare svolgimento dello stesso. Infatti, proprio grazie all'ammissione di colpevolezza del ragazzo, il giudice non fece alcuna fatica a giungere ad un verdetto che fosse equo. Pertanto, dopo aver esaminato le condizioni economiche e familiari del giovane, nonché le sue abitudini di vita, dal momento che durante i controlli antidroga emerse che il ragazzo faceva uso abituale di stupefacenti quali marijuana e hashish, ma vennero trovate anche tracce di cocaina e di metanfetamine, il ragazzo fu condannato a un anno e otto mesi di reclusione, da scontare in un istituto carcerario minorile, con le accuse di percosse e lesioni personali gravi.

Quando in aula venne letto il dispositivo della sentenza, Alessandro si sentì sul punto di svenire, avendo compreso solo in quel preciso momento la portata e la gravità del suo folle gesto. A nulla valsero le parole di conforto dell'avvocato d'ufficio che lo aveva affiancato durante tutto il processo, il quale gli disse più volte che quella pena era stata una manna dal cielo, visti i reati dei quali era stato accusato e, stando a quanto affermava lui stesso, il ragazzo avrebbe dovuto considerarsi davvero molto fortunato. Ovviamente, se quello stesso fatto si fosse verificato durante la maggiore età, allora la giustizia lo avrebbe punito molto più duramente, pertanto era necessario accettare il pacchetto completo senza riserve, e pensare solo ad andare avanti, che tanto due anni scarsi sarebbero passati in fretta.

Dal momento che le circostanze non permettevano di considerare Alessandro come un soggetto pericoloso, il giudice gli concesse un paio di giorni per prepararsi psicologicamente, salutare amici e parenti e mettere a posto le ultime cose. La mattina del terzo giorno, alle ore sei e quindici minuti in punto, il ragazzo avrebbe trovato davanti al portone di casa sua un'auto della polizia penitenziaria, pronta a condurlo nella sua nuova sistemazione.

Il primo dei tre giorni a sua disposizione, Alessandro non volle vedere nessuno. Si rinchiuse nella sua camera da letto dalla mattina fino a notte fonda, e rimase con lo sguardo fisso nel vuoto per ore e ore, alzandosi poche volte per sgranchirsi le gambe, ma stando sempre senza mangiare né bere. Non aveva ancora metabolizzato l'idea che sarebbe finito in un luogo che, per quanto si chiamasse "Istituto di correzione minorile", era a tutti gli effetti un carcere. Riusciva a malapena a immaginare quali realtà lo avrebbero aspettato lì dentro, ma soprattutto che tipo di persone avrebbe trovato al suo arrivo. Nella sua testa si affollavano i ricordi di quando passava il tempo con i ragazzi più grandi, i quali gli raccontavano di temibili uomini di ferro, arrugginiti dentro a una cella nella migliore delle ipotesi, trovati a penzolare dal soffitto nella peggiore. E se persone ben più preparate e forti d'animo di lui, che magari al carcere ci avevano anche fatto il callo, erano crollate sotto il peso psicologico di una porta a sbarre, quali speranze avrebbe avuto lui, che con certa gente non aveva mai condiviso nulla, eccezion fatta per una canna ogni tanto sulle panchine della piazza? Era abituato a tirare avanti e a sopravvivere fin da quando era venuto al mondo, ma nonostante ciò temeva che un'esperienza simile sarebbe stata troppo dura da sopportare, poiché una cosa è sentire i racconti delle esperienze altrui, un'altra è essere costretti a viverli sulla propria pelle.

Dopo un'intera giornata trascorsa nella disperazione più totale, le meningi non ci misero molto a bruciargli, a causa dell'eccessivo sforzo mentale dovuto al cercare risposte a tutte le domande che gli annebbiavano la mente. Alla fine, il ragazzo perse letteralmente i sensi, svenendo nel suo letto alle quattro in punto del mattino. Quello che fece, fu il sonno più agitato della sua intera adolescenza.

Le immagini si alternavano con una velocità pazzesca all'interno del suo cervello, spaziando da campi di grano con spighe tinte di un rosso sangue, a muri alti chilometri impossibili da superare. Vide anche sua madre distesa riversa a terra, ormai priva di vita, con davanti a sé un cartello che recitava la frase: "Tu mi hai uccisa", si ritrovò a correre in compagnia dei suoi amici per le strade del quartiere, finché non iniziò a correre così veloce da lasciarli dietro di sé nell'oscurità, per poi arrivare a sentire in lontananza le loro grida di terrore e supplicanti aiuto e, infine, assistette alla scena che più di tutte turbò il sonno di quella notte: Marta che sedeva all'ultimo piano dell'Empire State Building, ben aldilà del parapetto di sicurezza, con le gambe che ciondolavano nel vuoto. Le si avvicinò piano alle spalle, pronunciando lentamente il suo nome per cercare di non prenderla alla sprovvista.

– Ah, sei tu, Botta? Su, vieni qui vicino a farmi un po' di compagnia. – Evitando qualsiasi tipo di movimento brusco, il ragazzo le si sedette vicino.

– Sei già uscito dal carcere? Come passano in fretta ventidue anni! Il giorno prima sei con il tuo ragazzo in riva al mare, mentre quello dopo guardi l'orizzonte sperando che lui prima o poi torni. –

– Scusami, ho avuto da fare –, si giustificò con tono sicuro Alessandro.

– Peccato non essere stata il tipo di ragazza giusta per te. Da quando ho chiuso con la vita che facevi tu, non ti sono più sembrata interessante. Non è forse vero, Botta? –

– Ma cosa stai dicendo? Io ti ho sempre voluto bene per come eri e, anzi, ti ho sempre ammirato per il fatto che tu fossi stata in grado di uscire da tutta quella merda. –

– Sei sempre stato un ragazzo ingenuo e in parte mi sono innamorata di te anche per questo lato del tuo carattere. – Le sue parole furono seguite da un gesto che fece gelare il sangue nelle vene di Alessandro. La ragazza estrasse prima una bustina con della polvere bianca e poi una siringa.

– Marta, cosa cazzo stai facendo? Fermati, per l'amor di Dio! – Nonostante i due fossero spalla contro spalla, Alessandro non fu in grado di muovere un solo muscolo. Il suo corpo non rispondeva più agli stimoli che gli inviava il cervello e, non potendo far altro se non restare immobile a guardare, iniziò a supplicare Marta di smetterla.

– Sai qual è la cosa che in tutto ciò mi fa più ridere, amore mio? È che mi è bastato assistere alla scena di quella maledetta mattina, mi riferisco a quando hai pestato a sangue Paolo, qualora te lo fossi scordato, che già durante il pomeriggio avevo ricominciato a bucarmi come facevo quando ero ragazzina. E non pensare che l'abbia fatto solo perché ero sconvolta da quello che avevo visto alcune ore prima, no. Ho deciso di ricominciare a bucarmi perché ho finalmente capito che cosa avrei dovuto fare per piacerti. Alla fine voglio solo che tu possa amarmi, per sempre. –

– Ascoltami, Marta: io sono innamorato di te e lo sarò per tutta la mia vita, ma ti prego, lascia perdere quella merda. Tu eri migliore di me e di noi, tu sei migliore di tutto questo! Non lo fare ti prego...–

– È tardi, ragazzo. Il dottore mi ha detto che è ormai solo una questione di giorni prima che il mio cuore collassi e che quindi io vada dritta al Creatore. Arrivata a questo punto, non ho davvero più nulla da perdere. –

Una raffica di vento spostò i capelli dal viso della ragazza, cosicché Alessandro riuscì a guardarla bene in faccia. Il suo viso era stato completamente corroso da tutte le droghe che aveva utilizzato durante anni della sua assenza, la carne intorno agli zigomi si era ormai consumata del tutto, tanto che questi sporgevano all'infuori, al contrario della pelle delle guance che le ricadeva a brandelli intorno al mento. Il ragazzo stava guardando nient'altro che un teschio dalle sembianze umane. Quel viso non aveva niente in comune con quello di Marta, né si avvicinava in alcun modo ad un suo pallido ricordo.

– Che ti è successo? Marta...Dio mio...– Ormai il ragazzo era incapace di controllarsi e piangeva a dirotto cingendosi la testa con le mani.

– Non piangere per me, tesoro, tanto sono già morta da tempo. Diciamo da quando mi hai promesso che saresti cambiato e poi sei sparito per ventidue anni. Dai, Botta, non far finta che non ti piaccia vedermi così. So che è questo ciò che in realtà ti eccita –, e così dicendo, prima si infilò la siringa nel braccio destro, poi diluì la cocaina con il sangue che aveva appena estratto da una delle tante vene raggrinzite.

– Questo è un trucchetto che mi ha suggerito il dottore. Mi ha detto che ho talmente tanta eroina nelle vene che se un tossico usasse il mio sangue per bucarsi, questo gli farebbe lo stesso effetto della roba che compri sotto casa; così ho deciso di provare a pipparlo con la coca, per vedere che effetto mi avrebbe fatto. E credimi, amore, quando ti dico che è una sensazione straordinaria! – La risata che fuoriuscì dalla bocca della ragazza aveva un che di spettrale. Alessandro avrebbe voluto distogliere lo sguardo, ma non riusciva a girare il collo, come se qualcuno lo stesse costringendo con la forza a guardare quale era stato il risultato delle sue azioni, ma soprattutto delle sue omissioni.

Mentre la ragazza aspirava la polvere bianca e rossa che aveva davanti, le sue mani malferme ne fecero cadere maldestramente buona parte di sotto. Senza indugio, dopo essersi data una buona spinta con le braccia, si lanciò anche lei nel vuoto per cercare di recuperare la droga rubata dal vento. Alessandro urlò quando ormai il corpo di Marta era già in caduta libera, diretto verso il suolo sottostante. Allora si lasciò cadere anche lui, tentando in qualche modo di raggiungerla nella caduta. Ce la fece poco prima dello schianto e, quando arrivò a lei, la strinse forte a sé, sussurrandole dolcemente all'orecchio: – Perdonami... –

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