XII

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Durante le prime settimane di permanenza all'interno dell'istituto di correzione minorile "Cesare Beccaria", Alessandro iniziò a prendere familiarità con le regole della struttura. La giornata era suddivisa in orari rigidi e procedure standard che scandivano la routine, il tutto prescritto da un regolamento interno che riduceva al minimo ogni possibile margine di discrezionalità. La mattina, per chi avesse avuto intenzione di proseguire gli studi al di là della scuola dell'obbligo, vi era la possibilità di seguire i corsi inerenti al proprio anno di riferimento, frequentando classi costituite ad hoc, nelle quali docenti esterni tenevano le lezioni delle materie fondamentali. Per tutti gli altri, invece, l'unica alternativa valida era lavorare in una delle varie strutture del carcere, in locali quali, ad esempio, la mensa, la lavanderia, oppure anche la biblioteca, senza alcuna possibilità di scelta in merito alla tipologia del lavoro che si sarebbe desiderato svolgere. La paga che veniva offerta come corrispettivo di tale attività non aveva niente a che fare con l'idea di un ipotetico salario minimo, ma rappresentava una sorta di cifra simbolica che serviva ai ragazzi per poter accumulare piccole quantità di denaro, utili al fine di concedersi piccoli lussi, quali sigarette sfuse e bibite gassate da assaporare durante i pasti. Dopo aver consumato il pranzo, gli studenti avevano libero accesso a spazi comuni per acquisire familiarità con gli argomenti affrontati la mattina in classe, mentre coloro che avevano scelto il lavoro manuale portavano a termine le otto, o nove, ore del turno, variabili a seconda della mansione svolta. Dalle ore diciassette e trenta, fino alle ore venti, ai ragazzi veniva concesso del tempo libero da poter sfruttare come desiderassero; così, la maggior parte di loro si dedicava allo sport, organizzando partite di pallone alquanto improvvisate. A fine giornata, dopo aver consumato una cena veloce, veniva concessa un'ultima ora di svago prima del coprifuoco, istituito alle ore ventidue esatte, orario oltre il quale era severamente vietato allontanarsi dalla propria stanza.

Prima ancora che iniziasse il periodo di detenzione vera e propria, già dal primo giorno fu chiesto ad Alessandro di riporre tutti i suoi effetti personali nel deposito dell'istituto, con la garanzia che li avrebbe rivisti una volta uscito. Gli venne consegnata una divisa in tinta unita di colore grigio, recante sul lato destro una targhetta con su scritto il suo nome e cognome, dopodiché il ragazzo fu sottoposto a un breve colloquio conoscitivo preliminare, ad opera dello psicologo della struttura, il quale si riservò di proseguire la trattazione di determinati argomenti nelle settimane successive.

Riguardo all'edificio in sé, Alessandro notò che questo aveva davvero poco a che fare con un carcere vero e proprio; tutt'al più sembrava essere molto più simile ad una sorta di collegio, eccezion fatta per la costante presenza della polizia penitenziaria, la quale sorvegliava ogni angolo dell'immensa struttura, vigilando attentamente su ogni singola attività dei ragazzi, senza mai perderne di vista nessuno.

Gli spazi comuni per lo svolgimento delle varie attività del mattino e del primo pomeriggio rispettavano la ferrea divisione tra maschi e femmine, ma nonostante ciò era comunque possibile trascorrere tutti insieme il tempo libero concesso prima della cena, senza alcuna distinzione di sesso. Vi era poi un'ulteriore divisione tra chi avesse compiuto la maggiore età e chi no, poiché spesso capitava che si entrasse nell'istituto da minorenni, e se ne uscisse solo da maggiorenni, evento questo che determinava lo spostamento in un'ala differente dell'istituto. Ognuna di queste due categorie di ragazzi aveva edifici appositamente predisposti e spazi in comune diversi, per evitare che chi non avesse ancora compiuto diciott'anni entrasse in contatto con i ragazzi che avevano già da tempo raggiunto la maggiore età. E tale evento sarebbe capitato ad Alessandro da lì a sette mesi scarsi.

Alessandro iniziò fin da subito a frequentare i corsi che aveva tralasciato a causa della sua entrata nell'istituto, dal momento che gli mancava poco più di un mese e mezzo per concludere il quarto anno, ed era risoluto più che mai a conseguire il diploma di scuola superiore. Al di là degli obiettivi scolastici, dopo essere entrato al "Cesare Beccaria", il suo atteggiamento nei confronti della vita era completamente cambiato. Era diventato un ragazzo schivo e di poche parole, svolgeva i suoi compiti in silenzio e rispondeva solo alle domande che gli venivano poste, senza prendere mai l'iniziativa di parlare per primo. Non aveva fatto conoscenze all'interno della struttura e questo poiché preferiva trascorrere la maggior parte del proprio tempo in disparte dagli altri ragazzi, i quali invece approfittavano del tempo libero a disposizione per socializzare e per prendere parte alle attività comuni.

Il ragazzo ben presto si accorse che la stessa storia di sempre si stava ripetendo: così come si era sentito diverso nei confronti dei suoi compagni di scuola, allo stesso modo non riusciva in alcun modo ad integrarsi con gli altri ragazzi presenti nell'istituto. E non che alcuni di loro non avessero provato ad avvicinarlo, anzi, ma il vedere che nessuno si interrogava riguardo alla propria condizione, risultava essere per Alessandro un ostacolo insormontabile nell'instaurare un qualche rapporto umano. Ciò era dato dal fatto che la maggior parte dei ragazzi detenuti non viveva quell'ambiente come una costrizione così opprimente, dal momento che ognuno di loro non solo era ben inserito in un gruppo di amici, ma aveva anche le proprie mansioni da svolgere, le quali assolvevano più che degnamente alla funzione di impegnare l'enorme quantitativo di tempo a disposizione. Alessandro, al contrario, non si era mai sentito così solo prima d'ora e, come se non bastasse, non aveva mai provato un senso di impotenza così predominante, giungendo perfino a essere sopraffatto da esso. Ogni giorno passato dentro la struttura era un giorno in meno che avrebbe potuto trascorrere all'esterno all'aria aperta, con la possibilità di scegliere da sé come spenderlo, senza essere costretto a seguire gli ordini e le imposizioni di alcuna guardia. In aggiunta a questo, l'illusione della grandezza dell'edificio in cui era costretto a scontare la pena non era sufficiente a indorargli la pillola, dal momento che bastava allontanarsi di qualche metro dal cortile principale, per arrivare a scontrarsi con gli spessi mattoni rossi con cui era stato costruito il perimetro interno della struttura, sulla sommità del quale era impossibile non notare la sorveglianza continua di sentinelle sempre all'erta. Quella situazione non era nient'altro che un surrogato della realtà esterna, un piccolo mondo in miniatura che riproduceva la vita ideale per ognuno di quei ragazzi dalle esistenze disastrate, fatta di regole, orari e linee guida da seguire.

Alessandro, in uno dei tanti momenti passati seduto in cortile a riflettere, prese in considerazione l'ipotesi che, fintanto quei ragazzi, nel cui novero si inseriva anche lui stesso, fossero rimasti all'interno di quell'involucro protettivo, sarebbero riusciti senza fatica a tenersi lontano sia dalla delinquenza giovanile, sia dai drammi familiari che li avevano condotti in quel luogo. Il problema principale, però, si sarebbe riproposto una volta usciti dall'istituto dal momento che, senza alcuna guida, ma soprattutto senza sapere cosa fare della propria vita, il passo dal carcere minorile ad un carcere vero e proprio sarebbe stato breve.

E, a quel punto, nessuno di loro avrebbe più avuto scampo.

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