Do you believe in fate?

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“Il destino spesso lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo.”
Il mio nome è nessuno - 1973

Hermione era così confusa che rimase immobile senza riuscire a mettere a fuoco cosa fosse successo.
Non si accorse nemmeno di due mani gentili e fredde che la sollevarono e la portarono in una camera.
Quando se ne rese conto era seduta su di un sofà, con una tazza di tè in mano e lo sguardo color del cielo del nuovo insegnante che le sondava l’anima.
 
Hermione guardò negli occhi l’uomo seduto davanti a lei.
Due occhi azzurri come il cielo d’estate. Sembrava quasi potervi scorgere delle leggere nuvole, all’interno di quegli occhi.
Erano splendidi, leggeri ed intensi al tempo stesso.
Ti scavano dentro, come gli occhi di…
No, non doveva pensarci.
Poi lo scrutò nella sua figura intera.
Sedeva scomposto sul divanetto di fronte a lei. Un divano di legno finemente intagliato, con una copertura in morbida pelle color panna. Identico a quello su cui sedeva lei. Tra loro, un piccolo tavolino in legno e cristallo a dividere quei due corpi.
Osservò il suo professore di difesa contro le arti oscure.
Vestiva come un babbano, un giovane babbano dal corpo bellissimo, sodo e tornito.
Una tuta. Una semplice tuta. O meglio, i pantaloni di una tuta. Leggeri e neri, neri come il buio dei corridoi dei sotterranei.
Sul petto cadeva morbida una semplice maglietta in cotone a maniche corte, anch’essa nera.
Nera come i suoi capelli. Neri e lisci, sembravano le ali di un corvo…
Tutto quel nero si stagliava contro il pallore della pelle dell’uomo. Un pallore disumano, che le ricordava il volto della luna.
Lo stesso candore della sua pelle. La pelle di...
Basta.
Il professor Byron la lasciò fare. Si lasciò osservare, come fosse un manichino dietro una vetrina.
Poteva leggerle nella mente. Sapeva di fare un certo effetto sulle donzelle ma, quella donzella in particolare, aveva qualcosa di straordinario che ai suoi occhi la rendeva davvero attraente.
Anche lui osservò Hermione.
Portava la divisa; aveva delle calze color fumo di Londra alte fino al polpaccio, sodo, che veniva risaltato dal cotone delle calze stesse. Le gambe erano snelle e lunghe, e la sua pelle era candida e perfetta.
Portava la gonna più lunga rispetto alle sue compagne, e questo la rendeva ancora più interessante. Interessante da scoprire.
La camicia bianca era sovrastata dal maglione grigio con lo stemma della sua casa e le fasciava le morbide curve e il ventre piatto.
Era splendida.
Per ultimo lasciò il viso. La ciliegina sulla torta.
La pelle lattea, le labbra rosse e ben disegnate, il naso piccolo e all'insù che le donava un’aria da bambina sognante e poi… Poi gli occhi. Quegli occhi trasmettevano tutta la forza che nessun essere umano avrebbe mai potuto possedere. Ma lei sì. Lei possedeva quella forza.
La forza dei sentimenti.
Era splendida ma non era sua.
E non perché lui fosse un insegnante, no. Non era sua perché quegli occhi appartenevano ad un altro.
La sua vita era legata a doppio filo a quella di un altro e nessuno dei due né qualcuno di esterno avrebbe potuto intromettersi.
Le Parche avevano annodato i loro fili.
Li avevano uniti, ora e per sempre. Non avrebbero potuto nulla contro quel legame del destino.
Loro erano destinati, da chissà quanti anni prima della loro nascita.
Lui lo vedeva, lo vedeva bene.
Era la prima volta che ne vedeva una. Una destinata.
Aveva sempre creduto fosse una leggenda, e invece era tutto tremendamente vero.
L’aveva vista nei suoi occhi, quella sfumatura. Quella sfumatura rossa che non può essere colta da occhio umano. Una sfumatura che si rivela solo per una frazione di secondo.
La stessa sfumatura che aveva visto passare negli occhi di quel ragazzo.
Erano legati. Erano destinati. Erano l’uno la metà della mela dell’altro.
Erano anime gemelle.
 
Hermione si riscosse.
Si guardò un attimo intorno poi abbassò lo sguardo al suo tè per poi alzarlo verso l’insegnante a lei di fronte.
Gli sorrise, come a scusarsi di quella radiografia e soprattutto per essere piombata nella sua stanza così.
Nella sua stanza…
Il primo a parlare fu il professore.
«Signorina Granger, si sente meglio?» le chiese con voce preoccupata e roca.
Hermione sorrise e annuì.
«Mi scusi per averla fatta preoccupare. Mi ero... mi ero smarrita un attimo.» rispose, abbassando lo sguardo.
Il professore sorrise. «Ed il suo smarrirsi le ha fatto attraversare il ritratto che cela la sala comune ed i dormitori di Serpeverde?» chiese ridendo.
Beccata.
Hermione gli sorrise a disagio, poi posò la tazza sul tavolino e prese un respiro.
Alzò i suoi occhi, puntandoli in quelli dell’insegnante.
«Ha ragione.» rispose, ridendo leggermente. «Mi ha beccata.» concluse con una smorfia divertita.
Il professore rise ed Hermione decise di seguire il discorso.
«Lord-» iniziò, ma si corresse subito «Professor Byron, mi scusi se le sono piombata qui così, senza avvertirla ma… Ma io avrei bisogno di farle una domanda.» concluse un po’ titubante.
Il professor Byron la guardò. Lo sapeva. Aveva letto la consapevolezza e la richiesta di spiegazioni nel suo sguardo, dopo averle parlato in Sala Grande. A dir la verità, l’aspettava.
Si era anche vestito alla babbana per fare colpo su di lei, ma questo era meglio non dirlo.
Non dirlo a lei, né a se stesso.
«Signorina Granger, non si scusi per il disturbo, anzi. È un piacere poter bere un tè con una studentessa intelligente e garbata come lei.» disse ammiccante.
Hermione arrossì un poco, ma si riprese alla svelta.
L’insegnante continuò.
«Ora, sarò felice di rispondere a tutte le sue domande solo se…» e lasciò un attimo di suspense «lei risponderà prima ad una mia, di domanda.» disse con fare galante e divertito.
Hermione assottigliò un po’ lo sguardo.
C’era sotto qualcosa.
Annuì, accettando la domanda dell’insegnante.
Lui, al cenno della ragazza, riprese a parlare.
«Dunque, vorrei solo sapere... Cosa ci faceva nel corridoio con lo sguardo sbarrato e la mano protesa verso il nulla, davanti a lei?» chiese, avvicinandosi leggermente alla ragazza.
Hermione rimase un po’ spiazzata.
Era rimasta davvero in quella posizione?
Il professore l’aveva trovata così?
Oh, maledetto Malfoy!
Aveva fatto la figura dell’idiota visionaria.
Tutta colpa di quel furetto!
Il professor Byron seguì quello scambio di battute nella sua mente e si dovette trattenere dal ridere, per non offendere la ragazza.
Le piaceva come ragionava.
Hermione prese un respiro.
È un vampiro, gli basta uno sguardo per capire se menti.
L’insegnate sorrise, al pensiero della ragazza.
«Visto che la sua natura la porta a capire se una persona mente,» disse disinvolta «credo sia inutile girarci attorno. Ero lì con una persona, ma quando le lanterne alle pareti si sono accese, questa persona è scappata.» aveva stretto un po’ i denti sull’ultima parola.
Era arrabbiata, questo lo si leggeva bene.
Il problema era che non capiva se fosse più arrabbiata con quel furetto o con se stessa.
Decise di evitare di perdersi in quelle elucubrazioni degne dell’ammirevole Freud e di tornare a porre la domanda che le premeva tanto al suo insegnate. Tanto, avrebbe fatto i conti con se stessa appena tornata in camera. Non c’erano scappatoie.
Il professore continuava a seguire tutto quella che la ragazza pensava.
Le piaceva. E molto.
Era intelligente, sagace, brillante, autoironica. E dava peso ad ogni parola e sensazione, analizzandola seduta stante ed accantonandola per un’analisi più approfondita in un momento più personale.
Hermione ritornò a parlare all’insegnante.
«Ora credo sia il mio turno di porre delle domande.» disse sorridendo, la rabbia sfumata e una leggera curiosità a velarle le parole.
L’insegnate le fece cenno di continuare.
«Ad essere sinceri, mi preme farle solo una domanda.» disse la ragazza guardando bene negli occhi l’insegnante.
Lui la osservava ammirato e rapito.
Mai guardare negli occhi un vampiro.
Eppure lei si concesse quell’audacia.
La trovava sempre più attraente.
Hermione continuò.
«Perché mi ha citato proprio quel passo?»
Semplice, lineare, diretta.
Il professor Byron sorrise.
Sapeva che avrebbe capito.
Bevve un sorso di tè e posò la tazza. Stava prendendo tempo. Ma Hermione sapeva essere paziente. O meglio, doveva esserlo in quel caso.
L’insegnante la guardò. Cercò di trasmetterle tutta la preoccupazione e la sincerità che poté.
«Conosci la storia di Romeo e Giulietta, Hermione?» le chiese, fissando gli occhi color del cielo nei suoi.
Hermione annuì.
Voleva rispondergli dicendogli che non si rispondeva ad una domanda con un’altra domanda, ma si trattenne, mordendosi la lingua.
L’insegnate sorrise. Quella ragazza era fantastica. Poi continuò.
«Bene, sai dunque come finisce la storia, immagino.» Hermione annuì nuovamente, con lo sguardo triste.
L’insegnate capì che doveva arrivare al punto.
«Romeo si toglie la vita e Giulietta lo segue. E questo perché? Per amore penserai tu come pensano tutti. Un amore così grande da sconfiggere anche la morte. Bazzecole! Loro non si tolsero la vita per amore. No, lo fecero per oppressione, per il non essere accettati, per l’essere l’uno l’opposto dell’altro. Capisci, Hermione? A volte l’amore non basta.» disse, quasi rabbioso.
Non poteva dividerli, lo sapeva. Ma poteva avvisare la ragazza, per lo meno. Non aveva intenzione di vederla soffrire. Sapeva che, sempre a detta della leggenda, le Parche si divertivano a far incontrare i destinati solo per poi dividerli.
Loro odiavano gli esseri umani. Avevano così tanto potere e lo utilizzavano per distruggersi l’un l’altro.
Le Parche vivevano per punirli. Loro avevano in mano i fili del destino e delle loro vite. Si divertivano ad ingarbugliarli, a dividerli ed a spezzarli.
Erano crudeli.
E se avevano fatto incontrare due destinati, era solo per prendersene gioco, dimostrando all’uomo quanto infimo ed inetto egli sia.
L’insegnate la guardò. Una scintilla passò veloce negli occhi della giovane.
Non era stupida, aveva collegato le cose ma l’accettazione era davvero qualcosa di difficile.
«Ad essere sincera, Professore, non capisco cosa c’entri la storia dei due amanti con me. Non sono innamorata, l’amore non mi interessa e non sono così sciocca da lasciarmi prendere dal desiderio. Ho un cervello e mi piace usarlo.»
Il professore rimase interdetto un attimo.
Sapeva che la ragazza avesse intuito cosa l’insegnante cercasse di dirle ma, forse, il rapporto tra i due destinati non era ancora giunto ad un livello così intimo dal farle collegare le cose e capirne la reale portata. “Forse, ancora non si erano avvicinati”.
Questo pensiero lo rincuorò. Sapeva bene che quell’effimera gioia era portatrice di sventura, ma non poteva negarsi che il sapere di un’intimità non ancora ben delineata tra i due lo rendeva felice.
Si riscosse presto e rispose alla sua allieva.
Era così pura ed ingenua…
«Hermione» le disse, con voce bassa e roca «Forse sei ancora giovane ed inesperta, ma una cosa posso dirtela: nulla può la mente agli istinti del cuore e della carne.»
Hermione arrossì violentemente.
Il professore rimase estasiato. Era bellissima con quelle gote arrossate ed il pudore dipinto negli occhi.
Per non parlare del suo profumo.
L’odore che emanava era squisito.
La grifona cercò di controllarsi poi, con una calma ed un orgoglio da far invidia, rispose al suo insegnante.
«È vero. Sarò anche giovane ed inesperta» calcò sull’ultima parola facendo sorridere l’insegnante «ma sono anche convinta che se il nostro cervello è diviso in due emisferi ci sia un motivo. Metà. Metà netta. Una parte razionale e pragmatica, una parte istintiva e fantasiosa. Se l’uomo è stato creato con questa divisione precisa è per far sì che nessuna delle due parti prevalga mai sull’altra.»
L’insegnante rimase affascinato.
Hermione aveva le guance rosate, si alzò dal divano ma continuò la sua filippica.
«Equilibrio. Noi possiamo vivere nell’equilibrio. Poi sta all’uomo scegliere se cedere agli istinti od elevarsi grazie a quelle facoltà che ci rendono diversi dagli animali. Io, personalmente, ho deciso di sfruttare questo dono. Per me il detto “Al cuor non si comanda” è una pura idiozia. Il cervello, biologicamente parlando, comanda ogni muscolo del nostro corpo.» concluse con enfasi.
Lei era così. Razionale fino al midollo. E niente l’avrebbe cambiata. Né l’amore, né il sesso.
Il professore  si era alzato e le si era affiancato.
La guardava come se avesse davanti una perla rara.
E così era quella giovane donna.
Era rara.
L’uomo le sorrise.
«Ha fatto un discorso encomiabile, mia cara signorina Granger.» disse ed Hermione sentì un piccolo trionfo dentro di sé.
«Ma» eccolo là, quel maledetto ma «da tutto quello che ha detto traspare un dettaglio importante. Lei ha parlato di equilibrio tra raziocinio ed irrazionalità. Nelle sue parole, però, vi era solo della razionalità. Ha snocciolato la questione e ne ha dato una soluzione pratica e scientifica. Non c’era sentimento, o sbaglio?» concluse l’insegnante, avvicinando il volto pericolosamente a quello di Hermione.
La ragazza rimase interdetta, incatenata a quello sguardo, ma si riscosse subito.
Beh, aveva ragione.
Hermione sorrise.
«Touchée.» gli rispose.
L’insegnante s’aprì in un sorriso da mozzare il fiato ed Hermione sorrise di rimando, contagiata da tanta bellezza.
Poi lui la prese per mano e lei emise un piccolo singulto.
Era freddo come il ghiaccio.
Ghiaccio, i suoi occhi…
Non doveva pensare a quello stupido furetto.
Il professore la guardò e, piano, la condusse fuori dalla sua stanza.
«Vieni» le disse «ti accompagno alla torre.» e la scortò fuori dai sotterranei, salì tutti e sette i piani – sempre tenendola per mano – e si fermò di fronte al ritratto della Signora Grassa.
«Bene, io sono arrivata.» disse Hermione voltandosi verso il proprio insegnante «La ringrazio per il tè e per l’ospitalità. Grazie anche delle chiacchiere e per avermi accompagnata fin quassù.» concluse dolcemente.
L’insegnante sorrise raggiante, si abbassò e, con un colpo del polso, le fece girare la mano, mettendola con il palmo verso di sé.
Si avvicinò lento e posò un dolce bacio sul palmo stesso della mano, sfiorando col naso l’incavo del polso.
«Buonanotte, dolce Hermione» le disse con voce ammaliante.
Hermione arrossì e si affrettò ad entrare nel buco celato dal ritratto, dopo aver mormorato un veloce “Fidelio”.
All’interno del buco, però, si voltò un momento. Guardò il professore dritto negli occhi e parlò.
Sicura come non mai.
«Sa, Shakespeare è sempre stato uno dei mie poeti e drammaturgi preferiti. Per quanto cinica e razionale io sia, non riesco a non vedere l’amore nei suoi scritti. Non riesco ad immaginarmi un sentimento che non eguagli la descrizione shakespeariana. Forse è per questo che fatico a trovarlo nella realtà e preferisco rifugiarmi nelle pagine leggere dei libri. Credo di averlo idealizzato troppo.» sorrise, all’ultima frase, poi riprese. «Lei e il suo degno compare avete sempre scritto d’amore. Un amore così puro e totalizzante che anche una persona razionale come me non può evitare di desiderare, seppur contro ogni ragione. L’amore è gioia e dolore ma soprattutto sofferenza, e la sofferenza è ciò che più aneliamo evitare. Ma la storia di Romeo e Giulietta mi ha sempre fatto riflettere, e piangere» disse in un sussurro, per poi riprendere sicura e ferma «La storia dei due giovani amanti credo sia stata scritta come monito per tutti coloro i quali prendessero sotto gamba un sentimento tanto potente. Si saranno uccisi anche per oppressione, concordo in parte. Come concordo sul fatto che ci sia più coraggio nel vivere che nel morire ma… mi lasci spezzare una lancia a loro favore. È vero, a volte l’amore non basta, ma si ricordi che l’amore è tutto ciò che abbiamo.»
Il professore la guardò sparire dietro il ritratto.
Rimase spiazzato da quelle parole.
Lei così pragmatica e razionale. Lei così pratica e ferma. Anche lei celava un cuore che fremeva all’idea dell’amore. Alla fine, aveva ragione. Nonostante si cerchi disperatamente una ragione all’amore e a ciò che l’amore ti costringe a fare, essa non viene trovata. Perché nell’amore non c’è ragione che non sia l’amore stesso. Ma questo Hermione ancora non lo capiva. Ma l’avrebbe fatto, e ne avrebbe pagate le conseguenze.
Se solo potessi fare qualcosa di più…
Il professore si girò e cominciò a camminare per tornare ai sotterranei.
Le parole della ragazza a rimbombargli nella mente.
Aveva ancora il sapore della sua pelle sulle labbra.
Con quel bacio aveva sentito anche l’odore del suo sangue da vicino.
L’aveva sentito pulsare, nelle vene del polso. Il suo sangue doveva essere qualcosa di sublime.
Come lei. Sublime come lei, la sua bellezza e la sua intelligenza. Ed il suo cuore, così puro ed innocente, ma così forte e pieno di valori.
Non puoi dividere ciò che il destino ha unito.
E con quelle parole a rimbombargli nella mente, il bel vampiro tornò nei sotterranei, dove non chiuse occhio fino all’alba.
Non sapeva, però, che in quei freddi anfratti non era stato l’unico a non aver avuto il dolce abbraccio di Morfeo.

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