13.

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Il suono della ghiaia che scricchiola sotto i miei piedi è in qualche modo rilassante, cammino avanti e indietro da almeno venti minuti senza fermarmi. Tengo i pugni stretti, mentre ad ogni passo sento il panico e la rabbia darsi il cambio. Non so cosa provare, il mio sistema nervoso è andato in tilt.

« Jas.» mi chiama Daniel esasperato. Non lo ascolto, non mi fermo. « Per favore, smettila.» continua. Ancora una volta lo ignoro e mi limito a lanciargli un breve sguardo: lui mi fissa tenendo le braccia incrociate, immobile nella stessa posizione da quando siamo arrivati a Central Park, senza che nessuno dei due si preoccupasse di parlare. Io ho smesso di piangere nel momento stesso in cui mi sono ritrovata per strada, mentre a testa bassa cercavo di evitare gli sguardi dei passanti incuriositi. Daniel mi ha condotta qui, tenendomi per mano con una stretta forse più forte del necessario.
« Ehi.» mi chiama ancora. Questa volta, però, non si limita alle parole: il mio polso viene afferrato bruscamente dalle sue dita, che mi costringono a fermare la mia marcia e a guardarlo in faccia ad una distanza ravvicinata. Sembra ancora più preoccupato di quanto non lo fosse nell'appartamento.

« Non riesco a smettere di pensarci, Daniel.» confesso disperata.

Lui serra la mascella, dopodiché sospira. « Lo so, non hai idea di quanto mi dispiaccia. »

« Non potrò più suonare. » sussurro, dirlo ad alta voce fa ancora più male.

« Potrai suonare, basterà recuperare un altro violino. » tenta di farmi ragionare, ma non sono in vena di pensare razionalmente e provo a liberare il mio polso per ricominciare a fare avanti e indietro; ogni mio sforzo è inutile. « Lo so che il tuo violino è il tuo violino, però non puoi smettere di suonare, né darla vinta a Peggy. »

« Potrei tagliarle le corde dell'arpa.» affermo, sorprendendomi per un attimo di tanta cattiveria.

Daniel scuote la testa contrariato. « Non abbassarti al suo livello. Peggy l'ha combinata grossa e sicuramente non le permetterò più di avvicinarsi a te o alla tua stanza, Jas, ma non fare il suo gioco. » conclude serio. Non riesco a rispondergli, so che ha ragione. Entrambi piombiamo di nuovo nel nostro silenzio, il parco è quasi vuoto, il sole sta per tramontare e il gelo è calato su tutta New York. Il fatto che il laghetto alle spalle di Daniel sia quasi ghiacciato, dimostra che è ormai inverno.
« Andiamo a mangiare qualcosa?» propone, prendendo entrambe le mie mani tra le sue ed avvicinandosele al petto.

« Non voglio andarmene di qui, non ancora. »

« Stai tremando, Jas. » replica lui all'istante. « Non so se sia per il freddo o per la rabbia, ma non mi piace vederti così e... »

« Mi racconti qualcosa?» domando, interrompendolo e prendendolo alla sprovvista.

Daniel corruga la fronte. « Come?»

« Raccontami qualcosa su di te. » spiego, prima di liberare le mie mani per posarle ai lati del suo collo. È incredibile che abbia la pelle tanto bollente mentre io sto congelando.

Le mani di Daniel trovano la loro strada lungo i miei fianchi, chiudendo il cerchio intorno alla mia vita. « Che cosa vuoi sapere?» domanda, non accennano a sorridere o ad allontanare i suoi occhi dai miei.

« Coney Island. » rispondo all'istante. « Mi hai raccontato di essere cresciuto a Brooklyn, quindi dovevi andarci da piccolo » deduco, dando voce ad una delle mie riflessioni degli ultimi giorni. Daniel è molto riservato, quasi più di me, ho ottenuto delle informazioni sparse sul suo conto ed ho cercato di metterle insieme, dando vita a tanti piccoli pezzi di puzzle che non combaciano tra di loro.

« I miei genitori mi ci portavano spesso. » racconta, prendendo ad accarezzarmi la zona bassa della schiena.

« So che sei figlio unico, passavano molto tempo con te?»

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