Three

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«Rogers?» la voce della dottoressa Romanoff chiamò Steve, che continuava a camminare insieme al gruppo, restando in silenzio.
«Rogers?» sembrò più seccata, ma manteneva il suo passo imperterrito per guidare le matricole.
«Steve?» Sam gli diede una gomitata, che lo riportò finalmente alla realtà.
Lui scrollò la testa e si rivolse a Natasha, che gli lanciò un'occhiata severa.
Quella notte aveva dormito davvero poche ore. Dopo aver terminato il turno in ospedale, era tornato a casa, dove, con non molto entusiasmo, Peggy gli aveva organizzato una cena a lume di candela per festeggiare il suo primo giorno di lavoro.
Certo, il pensiero di Carter era più che carino, soprattutto per l'impegno e l'amore che aveva messo nel preparare il piatto preferito di Steve. Ma al biondo quella sorpresa non diede altro che irritazione.
Si sentiva persino in colpa ad aver reagito in quel modo, ad essere arrivato sul punto di non sopportare la presenza di Peggy, ma fece uno sforzo, e finse un sorriso.
Voleva solo riposarsi, era a pezzi per la turbolenta giornata, ma la serata proseguì fino a tarda ora, e Peggy proprio non voleva andarsene.
Cenarono, chiacchierarono, misero un po' di musica, e poi, alle tre di notte, fecero sesso, o almeno, quello che Peggy chiama fare l'amore.
Aveva pensato parecchie volte di mettere fine al loro rapporto in quel periodo, non c'era più la focosa attrazione che brulicava quando erano nell'esercito, e nemmeno i cuori intorno a loro ogni volta che stavano vicini.
Peggy lo amava, lo si capiva dai suoi gesti, ma Steve non provava più nulla, se non una simpatia ed una ragazza da portare a letto. E questo lo metteva in una pessima posizione, perché approfittarne in quel modo non era da lui.
Perciò, quando il tono della dottoressa Romanoff si stabilizzò, e l'attenzione di tutti fu rivolta a lei, finalmente potè esporsi con tranquillità.
«Oggi inizia il vostro primo e vero giorno di lavoro. Il vostro gruppo è stato assegnato al reparto giovanile, come vi avevo già preannunciato, e ad ognuno di voi il dottor Stark ha dato un paziente. Non sarà difficile per voi matricole, soprattutto perché si tratta di pazienti giovani e non molto instabili psicologicamente. Detto questo, rimboccatevi le maniche ed andate a presentarvi al vostro paziente. E ricordate, trattateli con estrema cautela e gentilezza, perché noi vogliamo solo il loro benessere.»
I ragazzi si salutarono amichevolmente, sorridendo e scambiandosi delle fugaci battute, per poi dileguarsi ognuno nella stanza assegnata.
La dottoressa Romanoff li lasciò andare quando il suo cerca persone iniziò a suonare, avvisandoli che per qualsiasi problema potevano rivolgersi a lei o al dottor Barton.
Steve camminò per il lucido corridoio sterilizzato, guardando attentamente i numeri sulle porte bianche.
Il sole illuminava tutto il piano, penetrando dalle grandi finestre ben pulite.
Tutto era ossessivamente a prova di germi.
Si fermò quando lesse il numero che gli era stato assegnato, il cento sette.
Ricordò che il dottor Stark gli aveva accennato che si trattava di un paziente giovane, addirittura un suo coetaneo, e magari, se le sue condizioni non fossero state davvero pessime, avrebbe potuto sfruttare questa cosa a suo favore per metterlo più a suo agio.
Ricordava come stava sua madre nel decorso della malattia, e l'unica cosa capace di poterla orientare discretamente era assumere un tono pacato e gentile. Un po' come se si stesse prendendo cura di un bambino.
Sistemò il colletto del suo camice, raddrizzò la targhetta con il suo nome, passò una mano fra il ciuffo biondo, e con un respirato profondo, entrò nella stanza.
Era un ambiente grande e illuminato, con i confort primari di un paziente. C'era un bagno in camera, un armadio, un grande letto al centro, ed un piccolo televisore a schermo piatto.
Steve prese la cartella del paziente dal tavolino di legno appena attaccato all'entrata, avvicinandosi con passo scattante al letto.
Una sagoma maschile, robusta e compatta, stava seduta fra le lenzuola bianche con la schiena poggiata ad un mucchio di cuscini.
Steve accennò un sorriso, per mettere a suo agio sia il paziente che la sua ansia.
Posò la cartella ai piedi del letto, senza neanche aver avuto il tempo di sfogliarla quando lo osservò con più attenzione.
Il suoi polmoni erano stati privati di ossigeno, le mani avevano preso a tremare involontariamente, e il suo viso si era paralizzato in un'espressione scioccata.
Il ragazzo difronte a lui si accorse di quella presenza, seppure in ritardo.
I suoi capelli castani erano lunghi quasi fino alle spalle, e alcune ciocche gli solleticavano il taglio degli occhi. Una barbetta incolta gli riempiva il mento e le guance, allargandosi con dolcezza quando le sue labbra carnose si alzarono verso l'alto.
Gli occhi verdi di quel malato si accesero, illuminando di colpo Steve.
Si spinse con il busto davanti, facendo cadere un cuscino, e con un voce bassa e roca sorrise incantato: «Stevie.»
Il cuore di Steve aveva quasi spezzato la sua gabbia toracica a furia di battere così forte.
Sentiva quasi che di lì a breve avrebbe avuto un mancamento, costretto a doversi tenere con una mano contro il materasso per impedirlo.
«Bucky?» non credeva potesse essere reale, non era abbastanza lucido in quel momento per ragionare.
Non pronunciava quel nome da così tanto tempo ormai, che aveva quasi dimenticato da quali lettere fosse composto.
Il moro aggrottò la fronte, confuso e quasi divertito: «Chi diavolo è Bucky?»
Steve passò una mano fra i capelli, iniziando a camminare istericamente da una parte all'altra della stanza, mentre Bucky lo osservava come un bambino divertito.
Era un sogno, non aveva il minimo senso. Da quanto tempo Bucky era malato? Da quanto tempo era ricoverato in clinica?
Una marea di domande si schiantarono contro la mente di Steve, in un silenzioso stato di shock. Ma alla fine riprese a respirare, ripetendosi che adesso lui era lì, e che la situazione doveva essere affrontata.
Il suo lato da medico finalmente si fece largo fra il terrore, trovando una spiegazione più che logica.
La storia del trasloco era tutta una falsa, Bucky era scomparso dalla circolazione perché doveva essere ricoverato per il suo alzheimer precoce.
Perché Steve non se n'era mai accorto? Ogni qualvolta che Bucky dimenticava i suoi oggetti da qualche altra parte, ogni volta che Steve era costretto a ripetere la stessa cosa per due volte di seguito perché lui la dimenticava quasi subito. Quelli erano tutti i primi ed evidenti segni di uno stato invalidante ed incurabile.
Quella voce tremante familiare, eppure molto più profonda e diversa, si fece sentire ancora, scoppiando nelle orecchie di Steve:
«Scusami se me ne sono andato ieri sera, ma stamattina dovevo svegliarmi presto, dovevo partire Stevie. Volevo chiamarti quando sarei arrivato, ma il cellulare era scarico....»
Si riferiva a l'ultima volta che si erano visti, si riferiva a quello che c'era stato la notte del loro addio.
Steve non riuscì a deglutire il gigantesco nodo alla gola, costretto a respirare con le labbra semichiuse. Quel ricordo, seppur avesse provato a cancellarlo in tutti i modi, continuava a persistere in ogni suo pensiero, come se ogni suo atomo potesse rivivere quel momento all'infinito.
«È stato bellissimo Stevie, davvero. È stata la mia prima volta, sai? Non ti ho fatto tanto male, vero?»
Non era strano che un malato di alzheimer cancellasse ogni suo ricordo nel giro di poche ore, ma che potesse ripescarlo quando qualcosa o qualcuno glielo riportasse alla mente.
Non è una cosa che capita spesso, ma senza ombra di dubbio, quel ricordo in Bucky doveva essere davvero importante.
Steve lo guardò come se potesse inghiottirlo con gli occhi, catturandolo per tenerlo per sempre dentro di sè; la sua voce vacillò, gesticolando istericamente:
«Ricordi il tuo nome?»
Bucky sorrise, indispettito: «Il mio nome?»
Steve si avvicinò di più a lui, chinandosi alla sua altezza, ed annuendo con voce ferma: «Il tuo nome è Bucky, Bucky Barnes.»
Il moro aggrottò la fronte, osservando il viso di Steve confuso: «No, non è vero.»
Rogers ritentò con un'altra domanda, forse un po' stupida e poco professionale: «Buck, ti ricordi di me?»
Come se quel nome avesse riportato indietro un frammento del vecchio James, il maggiore sorrise dolcemente ed annuì:
«Tua madre si chiama Sarah, e ricordo che ti riempi le scarpe di giornali.»
Gli occhi di Steve si fecero lucidi, e senza accorgersene iniziò ad ansimare. Era come se un pezzo della sua vita fosse tornato indietro, gli fosse stato restituito per metà.
Si irrigidì quando la mano di Bucky si posò sulla sua guancia, accarezzandogli la pelle con il pollice.
Ogni centimetro di lui era persuaso da un brivido gelido, che gli mandava delle scariche elettriche lungo la spina dorsale.
Le labbra di Bucky si avvicinarono di più al suo respiro: «Sta tranquillo, ci sono io.»
Steve si spinse indietro, scattando in piedi. Non poteva sopportare tutto ciò, stava accadendo tutto troppo in fretta. Chiuse i pugni, scrollò la testa ed uscì dalla stanza.
Che si fottano tutti, il lavoro, Peggy, la preparazione medica, l'ospedale, pensò, quello che stava accadendo era più importante di qualsiasi altra cosa.
Perché nel momento esatto in cui Bucky lo aveva chiamato per nome, Steve aveva capito di amarlo ancora, come se il tempo non fosse passato mai.

Remember me ||Stucky AU|| ✔Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora