Capitolo 37

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Appena salgo in macchina, gli rivolgo un timido sorriso come se non ci fossimo visti qualche ora fa. Essendo primo pomeriggio dovrebbe esserci il sole alto in cielo, ma le nuvole lo oscurano creando un tetto grigio che mi ricorda il clima londinese.
«Eccomi...» Sussurro, sbottonandomi un po' il cappotto, visto che il riscaldamento è già bello che accesso, i finestrini che si appannano velocemente.
«Mi è sembrato di aspettare un'eternità.» Commenta sotto voce, forse per orgoglio. Non è un ragazzo al quale piace aprirsi, specialmente se si parla di sentimenti. In questo periodo sto imparando a capirlo, ad associare uno sguardo ad un sentimento momentaneo, a vedere quella luce negli occhi, quella smorfia all'angolo della bocca e a notare in modo frequente le piccole fossette quando sorride.
Certo, ci siamo visti questa mattina, ma sono della stessa idea. Abbozzo un sorrisetto, senza rispondergli, un po' per imbarazzo, un po' perché voglio fargli capire come ci si sente a non ricevere risposte. Le sue iridi parlano anche fin troppo, ma ho bisogno molto spesso della sua voce, di quel suono pieno di colori e vibrazioni.

Me lo dici cosa ci facevi, di sabato mattina, in un bar? Lo capisco che mi stai nascondendo qualcosa, l'ho capito dal tuo sorrisetto divertito e dal modo in cui alternavi la tua attenzione tra il tuo amico e me... come se sperassi di non farti scappare niente da quella bocca che mi manca troppo. Perché ti guardo e ripenso a quella sera interminabile, senza nessun orologio o qualcos'altro che ci interrompesse. C'eravamo noi e nessun altro. C'erano i baci rubati, le carezze che si trasformavano in graffi e le tue mani che mi stringevano con prepotenza come se stessi per cadere o scappare. Ma non me ne vado da nessuna parte, non ora.

«Scommetto che non me lo dici dove stiamo andando.» Ridacchio, aspettando la classica risposta.
«Non ci sarebbe gusto a dirtelo subito, fidati.» Scuote il capo, mordicchiandosi l'anellino sul labbro inferiore, come gli è solito fare. Sfilo il cappellino dalla testa e mi spettino i capelli, per poi incorniciarli dietro le orecchie. «Lo capirai da sola, tra poco.» Aggiunge, dando un'occhiata allo specchietto retrovisore per svoltare sulla destra.
Raggiungiamo uno spiazzo che porta ad una stradina stretta. Vista da questa prospettiva sembra essere in un posto isolato, ma basta voltare le spalle e tornare indietro per capire che siamo perfettamente in centro, per di più vicini al luogo in cui l'ho incontrato poche ore fa.
«Kyle, dove siamo?» Spegne il motore, sfilando le chiavi, mettendosele in tasca.
«Ora lo vedrai» Accenna un sorriso, uscendo dalla macchina. Faccio lo stesso, seguendolo.
Gli cammino accanto, cercando di stringermi nelle spalle il più possibile per ripararmi dal gelo che si scatena come una furia, in queste settimane.
«Freddo? Ora entriamo, tranquilla» Una fossetta compare all'angolo della bocca. Annuisco, incantandomi davanti a quel semplice particolare che mi illude. Vorrei che ci fosse sempre ma se ne va, mischiandosi col resto della pelle. Mi illude perché vorrei toccarla, accarezzarla, seguire le linee di un viso che quasi conosco alla perfezione e che mi ostino a cercare in qualunque posto mi trovi.
Continuo a seguirlo, chiedendomi dove ci stiamo dirigendo... ma trovo risposta non appena si ferma di fronte ad una saracinesca ancora calata, la scritta al neon che reca il nome: Inked Blood. Un cipiglio mi si forma in viso, sorpresa quanto estremamente confusa.
«Tu...» Sussurro, mentre toglie il lucchetto, aprendo il negozio.
«Sì, ci lavoro.» Dice soddisfatto, ridacchiando per come sia rimasta stupita da ciò. Probabilmente era l'ultima cosa che potessi aspettarmi da lui, ma poi mi convinco che questo ragazzo non farà altro che sorprendermi. Istintivamente sorrido, entusiasta all'idea di scoprire più su di lui, prendendo in considerazione che ora mi sta mostrando una parte di sé che non conoscevo... e non posso far altro che apprezzare.
«Sbaglio o avevi freddo?» Ghigna, guardandomi divertito. Non mi sono nemmeno accorta che mi tenesse aperta la porta. Alzo gli occhi al cielo, scuotendo la testa per cercare di tornare con i piedi per terra.

Il profumo di alcol si mischia alla vaniglia, il calore che trasmette questo posto mi ricorda la libreria anche se mi sento pazza soltanto nel pensarlo. Questo luogo è accogliente, qualche divanetto nero in pelle, all'entrata, che danno l'idea di essere estremamente confortevoli e un corridoio che conduce a diverse porte, dopo aver superato una scrivania che presumo essere il luogo di raccolta dei documenti.
Incantata da un posto nel quale non ero mai entrata, lo seguo restando un metro dietro di lui per poter osservare più dettagli possibili. E' bizzarro pensare di essere stati diciassette anni sulla Terra e non essere mai andati in un salone di tatuaggi. Per lo meno, posso toglierla dalla lista delle cose da fare almeno una volta nella vita.
«Qui ci sono gli studi di Jake e Luke» Indica due porte che si trovano di fronte alla sua. La pancia è in subbuglio perché sto provando una serie di emozioni. Stai facendo un po' di spazio nella tua vita, Kyle, mi stai facendo entrare. Mi permetti di capirti meglio, di conoscerti più a fondo e di provare una sensazione di intimità che si sta creando fra noi. Lo sento proprio il calore, qui, al centro del petto. Lo vedo nelle mani sudate, lo percepisco nella sensazione all'altezza della bocca dello stomaco, lo percepisco nel sorriso che cresce sul mio volto, senza che possa controllarlo.
«... I tuoi colleghi?» Gli chiedo, passando un dito lungo uno scaffale. Lo faccio in modo timido, gentile, diligente. Seguo un percorso tutto mio in Kyle, lo sto leggendo attraverso i disegni su carta, lo stesso inchiostro su pelle.
«Jake l'hai conosciuto questa mattina, siamo andati a prenderci un caffè.» Mi parla, io che sono ancora voltata di spalle, gli occhi che si illuminando davanti a tutto ciò.
«L'hai fatto te, non è vero?» Sussurro, osservando un insieme di fiori aggrovigliati, rose appassite e un occhio, femminile, dall'iride nera, nascosto in una piuma di pavone. Mi volto incrociando il suo sguardo. Mi avvicino, sedendomi sul lettino del cliente, lui a gambe divaricate sullo sgabello da lavoro. Degli aghi sono riposti sul tavolino ancora in disordine, come se fosse uscito lasciando tutto così.
«E' semplicemente un disegno.» Fa spallucce, sottovalutando il lavoro. Ti sminuisci, proprio come faccio io. Mostri il lato insicuro di te, nascondendoti dietro ad una frase. La parte fragile di noi stessi, il difetto di sottovalutarsi quando è evidente che facciamo qualcosa, e anche bene. Si parla di umiltà, un difetto bellissimo che non tutti hanno. Perché te lo vorrei sussurrare all'orecchio, adagio, lentamente, che quello che fai mi piace moltissimo, che hai un talento per il disegno e per l'espressione, inconscia, della fantasia.
«No. Affatto.» Rispondo decisa, fregandomene di ciò che pensa. Ogni tanto disegno anche io, anzi, a dir la verità mi porto spesso con me un quadernino ed una semplice grafite per scarabocchiare dettagli che non sfuggono ai miei occhi curiosi e fin troppo attenti, il bisogno che ho di catturare un'immagine con linee scure incise su carta.

Resta come inchiostroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora