19. I COCCI LI RACCOGLIAMO NOI

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Durante un fine settimana mia madre mi raggiunse a Milano.
Veniva a trovarmi con una certa regolarità e a me non dispiaceva. Ero ben felice di scorrazzarla nei luoghi che amavo, sentendomi in qualche modo orgogliosa per il loro splendore, come se in qualche misura ne avessi avuto il merito. Si fermò qualche giorno, per cui ebbi tempo di sfoderare tutto il repertorio.

Col fatto che ero io a guidarla, mi sembrava che le parti un po' si invertissero, e mi divertivo un mondo a vedere quella mamma-bambina che si emozionava quanto e più di me per le meraviglie della città. In ogni caso, superato l'ostacolo costituito dal riuscire a non farsi asfaltare dalla corsa isterica dei milanesi ai tornelli, prendere la metro era diventata l'attrazione principale della giornata.
Per pranzo la portai in piazza Gae Aulenti, ci godevamo un ottimo brunch in mezzo ai milanesi che sfrecciavano (perché un milanese, per definizione, non può andarsene in giro con calma) ai turisti che passeggiavano col naso per aria e ai grattacieli che osservavano silenziosi. Fu in quel momento che sentii il bisogno di parlarle di Aydin.

-Sai mi vedo con uno.

-Ah sì?- chiese con tono volutamente distaccato, ma i significati delle ottave nella sua voce li conoscevo tutti.

-E' un musicista.

-Ah- ottava più alta.

-Un compositore

-Mmm- ottava leggermente più bassa.

-Mi sa che mi sono presa una bella cotta.

-...

-Forse mi sono innamorata- Rincarai, controllando di rimanere sotto la soglia dello svenimento, che comunque non era lontana.
Infilzò violentemente un raviolo integrale con aplomb britannico.

Era strano. Quella frase non l'avevo pronunciata ancora neanche nella mia testa.

-E dove l'hai conosciuto?

Le raccontai degli ultimi giorni, tralasciando giusto un paio di particolari.

Non avevo mai parlato coi miei genitori di queste faccende. Certo, non avevo mai neanche dovuto nascondere le mie relazioni me ecco, non erano mai stati i miei confidenti.

Se avevo deciso di cambiare registro era perché avevo bisogno di confrontare quel che ero in quei giorni con quello che ero sempre stata, e mia madre era lo stampo originario di quell'immagine. Sentivo la necessità di avvicinare la dimensione di quel ragazzo, abbastanza avulsa dalla realtà, al mio mondo quotidiano, così da poterli confrontare con le stesse misure e, magari, capirci qualcosa.

A lei non dissi tutto questo, le raccontai semplicemente delle coordinate stravaganti che di lui mi piacevano tanto.
Prova i a spiegarle che avevo bisogno delle sue mani da gigante e le spalle ricurve di chi, dall'alto, sente il bisogno di avvicinarsi per osservare meglio; e anche per la sua adolescenza solitaria, trascorsa in una grande città di uno stato lontano, nello spazio e nel tempo, dove lo immaginavo a vagare e confrontare gli opposti dissonanti, che le metropoli offrono.

Credetemi, già sforzarsi di raccontare tutto questo a una mamma è un'impresa degna di una decantazione epica.
Penso che colse comunque il punto, perché senza giri di parole mi chiese

-Quindi che pensi di fare?
Ci pensai un attimo, non ne avevo idea.

-Non lo so bene, ma ho l'impressione che mi farà a pezzi.

Mia madre alzò gli occhi su di me. Mia madre, che 'l'orgoglio prima di tutto', che 'in amor vince chi fugge', che 'devi sempre farti desiderare' che 'io tuo padre quando m'è venuto a trovare per la prima volta non l'ho neanche fatto entrare in casa'; mia madre, che mi aveva sempre ripetuto tutto questo, allora mi sorrise e mi disse:

-Vai, buttati. Semmai ci siamo noi a rimetterli insieme.

Io ancora non l'ho trovata una frase più carica d'amore e forza propulsiva di questa.

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