4. SCONVOLGIMENTI SERALI E SOTTOTESTI STUPIDAMENTE SORRIDENTI

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Quella sera arrivai con qualche minuto di anticipo, senza sapere bene cosa aspettarmi, ma con una vaga agitazione alla bocca dello stomaco.

Lui era già lì, coi suoi occhi tristi e le cuffie nelle orecchie. Era avvolto in un cappotto nero, elegante e ordinato come le sue composizioni. Le mani affondate nelle tasche, i capelli pettinati all'indietro ad eccezione di un unico ciuffo ribelle, sempre lo stesso, che in seguito avrei imparato ad amare. Mi salutò con due baci sulle guance, dovetti alzarmi in punta di piedi per arrivare al suo viso. Aveva un buon odore.

Ci accomodammo all'interno del locale caotico e rumoroso. Nonostante il gran trambusto però, una volta seduti, non percepii altro che la sua voce da baritono. Ci fu un primo momento di convenevoli, in cui scoprii divertita che in una città da un milione abbondante di abitanti abitavamo a un paio di strade di distanza.

Gli chiesi della sua carriera. Mi disse che si era trasferito a Milano un paio di mesi prima in cerca di fortuna, che per lui significava un produttore discografico. Mi raccontò storie di mondi e di musica, e della certezza granitica che, nonostante le molte difficoltà, legava il suo futuro agli alti e bassi di un pianoforte.

Aveva un modo di narrare brusco, a tratti nervoso. Raramente alzava gli occhi mentre parlava, e quando lo faceva il suo sguardo non era mai completamente fisso su un punto, ma girovago, avido di tutto.

Col suo fare un po' scontroso, condivise pensieri che gli avrei in seguito sentito ripetere tante volte durante varie interviste; racconti evidentemente rifiniti e perfezionati nel tempo, che in quel momento però ricevetti come un regalo, come un cannocchiale su un cosmo esotico, su una strada profondamente diversa di vedere le cose e di viverle.

Scoprii che suo padre era un diplomatico, sua madre una matematica che lavorava in collaborazione con atenei di tutto il mondo. Questo lo aveva portato a non avere un paese se non la patria che si era scelto da adolescente.

Istanbul. Quella città gli illuminava il viso.

Mi raccontò di una metropoli che non conosce il silenzio, dove basta andare in giro a occhi chiusi e con le orecchie tese per capire in quale quartiere ti trovi. Cercò di descrivermi le melodie uniche e talvolta dissonanti che permeavano ciascuno di loro. E Mi disse che, solo lì, si era sentito veramente libero.

Ero totalmente rapita da quel ragazzo, dal suo mondo fatto di estremi, armonie contrastanti e sfilacciate, che strideva col mio, categorico, rassicurante, sempre uguale a se stesso. Ero colpita dalla sua capacità di sfuggire a ogni banalità e dall' energica sconsideratezza che aveva nel plasmare la sua vita a dispetto di tutti, senza seguire comodi binari prestabiliti. Mentre raccontava, una voce nella mia testa aveva cominciato a berciare prepotentemente:

"E' lui!!!"

Era lui, per molti motivi, ma quello che si schierava come imperativo categorico era che lui fosse già molta strada avanti a me e mi rendevo conto che, se avessi provato a stare al suo passo, forse sarei diventata la persona che volevo essere.

Era lui e nonostante questo, sapevo che non sarei mai riuscita ad averlo.

Dal primo istante in cui una parte della mia coscienza aveva cominciato a urlare di darmi una mossa, una seconda voce aveva iniziato a sussurrare, con tono soffocato ma costante, una domanda: cosa potevo offrire a un burbero musicista girovago?

Io sono goffa, riservata, abituata alla dolcezza, curiosa, sì, ma allo stesso tempo prudente fino all'immobilismo; e in lui mi spaventava, fino a ridurmi al silenzio, il livore verso tutto e tutti e quel ringhio costante che potevo percepire nei suoi pensieri.

Decidemmo di alzarci da tavola e fare una passeggiata. Mi scortò fino a casa e davanti al portone d'ingresso mi salutò nuovamente con due baci, il secondo a pochi centimetri dall'angolo della bocca e accompagnato da movimenti più lenti. Restai immobile mentre allontanava il suo viso dal mio, accennava un sorriso e si avviava sulla sua strada. Scrutai le sue spalle che svoltavano l'angolo e, invece di entrare, imboccai la direzione opposta.

Cominciai a camminare a passo svelto, quasi di corsa, senza una meta. Lo scompiglio che avevo in corpo mi gonfiavano il petto più dello sforzo della maratona.

Qualche minuto più tardi arrivò un suo messaggio.

-Tutto a posto?- Che avesse letto la mia agitazione? Nel dubbio feci la gnorri.

-Certo. Tu?

-Si Si, sono già a letto.

-Io invece sono ancora in giro.

-Ah sì?

-Le gambe avevano ancora voglia di andare- Evviva gli eufemismi.

-Potevi dirmelo.

-Passeggiatina notturna...

-Cammina cammina non è che arrivi a via ****

Casa sua. 'Ah ecco'. Il mio zuccheroso lirismo disneyano subì un duro colpo. 'Ma guarda tu questo'. Che fare?? Ero esattamente equidistante dalla possibilità di mandarlo a quel paese... e quella di accettare.

-Magari un'altra volta.

-Magari...

-Magari- Conclusi sperando di concentrare un'enciclopedia di sottotesti in un paio di faccine sorridenti.

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