Tornai a Milano il lunedì successivo, azzerata, sollevata e soprattutto con le cose rimesse nella giusta prospettiva e proporzione, che in fondo, i problemi nella vita sono altri.
Ripresi in mano il lavoro col mio entusiasmo abituale, ritrovando l'amore verso la mia materia come due compagni di vecchia data, che si riprendono dopo una pausa di riflessione, senza ricordare i motivi del litigio ed estasiati nel riscoprire i reciproci pregi.Comunque, terminata la giornata universitaria, decisi di fare un saluto in uno dei luoghi di Milano che prediligevo.
Coprii a piedi la distanza che mi separava da Corso Como, dov'era la mia meta. Apprezzavo quel quartiere perché ricco di contraddizioni e buon paradigma della storia Meneghina. Nato come modesta zona operaia, aveva in seguito subito tutti gli stravolgimenti che avevano riguardato le aree industriali nel secolo scorso, a tratti riuscendo a cavalcare le ondate improvvise di cambiamento, a tratti venendone sommerso.
Il risultato era un seducente miscuglio di palazzi signorili e dimesse case a ringhiera. Il tutto sovrastato dal più grande centro amministrativo della città, che, con la sua aria cosmopolita anche se un po'impersonale tipica dei quartieri direzionali, aveva sotteso una tensione sottile con il preesistente, legata al sorprendente salto di scala fra vecchio e nuovo. Proprio quella strana convivenza era ciò che rendeva uniche e affascianti quelle vie.
Dietro il portone di un palazzo non particolarmente degno di nota si apriva un universo, un piccolo cosmo prezioso che all'esterno non dava alcun segno di se. Nella corte interna erano state stipate centinaia di piante, a terra e sui ballatoi. L'impressione era quindi quella di addentrarsi in una giungla urbana, un'esplosione verde controllata che smussava i contorni architettonici e diventava unico involucro a definire l'intimità dello spazio sul quale, oltre a un negozio e un bar, si affacciavano una libreria e uno spazio espositivo per la fotografia, dove regolarmente perdevo le mie giornate.
Quel pomeriggio però li attraversai distrattamente e puntai subito al pezzo forte, la terrazza. Attraverso una ripida e minuscola scala a chiocciola dall' elegante ringhiera in ghisa battuta, si accedeva a un secondo cortile, ricco di vegetazione, che si faceva spazio spintonando i tetti delle case circostanti. La peculiarità di questo era la miriade di sedie colorate che lo popolava, tutte diverse fra loro. Scelsi una poltroncina gialla, mio colore preferito, e mi sedetti ad ammirare il panorama.
Da dietro i tetti rossi di tegole, spuntava l'azzurrino cangiante delle vetrate dei grattacieli. Da lì avevo la sensazione di fissare quei giganti di acciaio e vetro negli occhi, da pari a pari. Da quel punto di osservazione privilegiato studiavo i passi della città e le sue scelte per il futuro.
Ero persa nelle mie considerazioni quando sentii vibrare il cellulare. Vedendo il nome sullo schermo mi ripresero le ormai consuete palpitazioni.
Era lui.Il messaggio conteneva una foto del bosforo e poche parole, pennellate impressionistiche della sua vita quotidiana di quei giorni. Sebbene, dopo la partenza, sperassi con tutto il cuore in qualche attenzione di quel genere da parte sua, passati i primi giorni di silenzio, avevo accettato di buon grado la pausa per riprendere fiato. Rimasi quindi sorpresa e stupidamente felice. Risposi allo stesso modo, e mi avviai verso casa con un sorriso ebete stampato sulla faccia.
Il rito si ripeté tutti i giorni con regolarità svizzera, a volte mi inviava paesaggi da cartolina, altre, viste minute di piccole realtà piene di malinconia. Come la volpe del Piccolo Principe, avevo cominciato ad apprezzare quell'ora del tardo pomeriggio come un campo di grano dorato.
Finalmente arrivò il momento del rientro.
Sapevo che una volta atterrato in Italia, prima di tornare a Milano, avrebbe fatto una tappa per salutare alcuni amici e parte della sua famiglia. Lo chiamai.Mi rispose col solito secco -Buongiorno.
Sentii nel telefono il rumore del mare, e stavolta non era solo il baccano della meravigliosa agitazione che mi provocava la sua voce.-Ciao! Sei in spiaggia?
-Si, sto facendo una passeggiata
- E com'è?
- E' bello, c'è molto vento, il mare è mosso. Quando vengo qui non porto mai l'orologio. E in genere non rispondo al telefono.
- In genere. . .
- In genere. Ti pensavo sai?
Chi mi avesse visto camminare come un automa per i corridoi dell'università, col cellulare praticamente fuso alla guancia, in quel momento avrebbe potuto pensare che per fortuna c'erano le orecchie a limitare il sorriso che diede forma al mio viso.
Mi sentivo un'adolescente sciocca in preda al deliquio.
- Ci vediamo venerdì?
- Certo.
Definiti luogo e orario lo salutai lasciandolo alla sua passeggiata meditativa. Spensi il telefono, feci un balzello e tornai a lezione.
Propongo un gioco. Ieri Clementine39 mi ha chiesto se la protagonista ha un nome. Io non ho intenzione di darglielo ma sarei curiosa di sapere, voi come la chiamereste?
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Terminal
RomanceUn pezzo di vita, pensieri e sensazioni senza filtri. Una storia d'amore, un pianista eccentrico. Una Milano affascinante e rivelatrice.