14. DAL GIORNO ALLA NOTTE

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Questo è il capitolo a cui in assoluto sono più legata.
Spero vi piaccia.
Siamo al giro di boa.

La sera prima della sua partenza avevamo parlato di Hangar Bicocca, una delle cattedrali nel deserto della periferia milanese, votate all'arte e sorte con l'enorme ondata propositiva che aveva travolto la città con l'esposizione universale. Avremmo visito la mostra in corso, un'unica grande installazione situata in una della navate dalla ormai passata vocazione industriale.

Lui ci era già stato, ma quando avevo manifestato il mio interesse, si era affrettato ad aggiungere: -Ci torniamo!

Quel plurale mi aveva estasiata.

Affrettai il passo per arrivare puntuale all'appuntamento. Sapevo che lui era già lì, in anticipo, con le cuffie nelle orecchie e le mani affondate dentro le tasche del cappotto.

Quando arrivai mi dava le spalle ma l'immagine che aleggiava nella mia mente aderiva minuziosamente alla realtà. Questa corrispondenza mi diede il conforto di una promessa mantenuta. Attesi qualche istante per godermi quella calda serenità prima di bussargli sulla spalla.

Incassai felice i miei due baci e ci inabissiamo nella stazione della metro.

Durante il tragitto mi raccontò degli amici che aveva ritrovato in quella settimana di viaggio.
Io sperimentavo da neofita la situazione in cui la maggior parte delle persone che amavo non viveva nella mia stessa città, cercando di fronteggiare al meglio i contraccolpi emotivi che tutto ciò comportava. Lui invece sguazzava in questa condizione da tutta la vita. Questo l'aveva reso estremamente recettivo verso chi gli stava intorno, attento a cogliere il più possibile da ogni incontro. Io al contrario, mi ero sempre cullata nella sicurezza di legami certi e fortissimi. Questo non mi aveva arricchito di meno ma mi aveva abituata a concedermi tempi molto lunghi prima di ammettere una persona nella mia vita, un lusso che non potevo più permettermi.

Arrivammo a destinazione dopo un breve tratto a piedi fra desolanti palazzoni e anonimi centri commerciali. Le installazioni in acciaio brunito poste all'ingresso dell'hangar, col loro colore caldo e accogliente, fungevano da totem in mezzo alla freddezza del cemento, che il crepuscolo appiattiva in un'unica distesa inarticolata.
Su di loro riposammo gli occhi straziati dalle brutture circostante.

Entrammo in un atrio alto e luminoso. L'apertura prolungata del polo museale, in quella uggiosa sera di autunno inoltrato, non aveva riscosso particolare successo e, come risultato, ci trovammo soli davanti alla cassa per i biglietti. Una volta pagati gli ingressi, scostammo le pesanti cortine di velluto che fungevano da diaframma fra i due ambienti.

Fummo ammessi all'installazione con la solennità che si addice all'entrata in un tempio.

Davanti a noi, la vertiginosa conformazione gotica di uno spazio industriale completamente svuotato, sfumato nei suoi contorni dall'oscurità quasi assoluta. Mi sentii intimidita da quella vastità silenziosa e pressoché deserta.

Inconsciamente mi avvicinai a Aydin, le spalle accostate, le mani che si sfioravano.

L'unica fonte di luce era un faro che illuminava dall'alto un pianoforte. La superficie lucida dello strumento rifletteva il fascio azzurrino, restituendo la propria figura senza sfumature, solo nei suoi contorni. Ci avvicinammo.

Nella mia mente, quell'immagine in bianco e nero richiamava per contrasto il pomeriggio saturo dei colori autunnali, in cui l'avevo incontrato per la prima volta.

D'improvviso, senza che nessuno l'avesse sfiorato, dal piano scaturì un accordo fragoroso. Feci un passo indietro per la sorpresa. Aydin mi guardò ridacchiando. Le note intanto si erano moltiplicate in una melodia solenne. Mi avvicinai e mi resi conto che i tasti si abbassavano autonomamente grazie a un congegno meccanico.

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