21. DI LUNEDÌ

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Il giorno dopo era, disgraziatamente, lunedì. Di nuovo.

Come questa sciagura indicibile osasse ripetersi a cadenza settimanale mi riempì di costernazione. La notizia cataclismatica si fece largo nella mia coscienza semiaddormentata alle cinque e ventisei del mattino, accompagnata dalla consapevolezza che il mio lavoro giaceva abbandonato sulla scrivania, senza ancora né capo né coda.

Disastro.

Mi catapultai fuori dal letto, trascinandomi dietro un ignaro gigante, che, nonostante la sua mole, rischiò di venire sbalzato a terra dallo slancio. Mentre mi vestivo, mi interrogò con lo sguardo di un cucciolo di foca appena scuoiato.

Tentai di trattenere il riso mentre chiedevo perdono con un bacio a quella avveniristica massa tricologica, da cui spuntava qualche pezzo di viso spaesato.

-Scusami, devo scappare. Ci vediamo stasera¬- Dissi. E mi eclissai, ottenendo un soddisfatto grugnito in risposta.

Percorsi come una furia le poche centinaia di metri che mi separavano da casa. Le uniche passanti a quell'ora erano un pugno di prostitute, che osservavano la mia espressione invasata con apprensione.

Rimuginai sul fatto che la mia andatura si era avvicinata a quella di una vera Milanese più nelle ultime settimane di moto perpetuo, che in tutti i molti mesi precedenti.
Pensai a Aydin, ai suoi occhi tristi e alla sua musica, e conclusi che, forse, mi trovavo semplicemente in una città di persone che avevano molto da perdere...

Giunta finalmente al mio appartamento feci del mio meglio per dare una parvenza accettabile ai brandelli scomposti di pensiero di cui, al momento, era costituito il mio progetto. Mi presentai alla revisione con una proposta approssimativa e un'espressione colpevole. Fortunatamente il mio interlocutore, docente di progettazione, fu non solo clemente, ma incoraggiante.

Mi piaceva quel professore.
Aveva una statura media ma il portamento marziale e il mento volitivo gli regalavano, oltre che un' aura si sapienza, almeno dieci centimetri in più. Era magrissimo e vestiva sempre di nero. Parlava sottovoce, ma con sicurezza e proposito tali che le sue parole arrivavano chiare e distinte fino in fondo all'aula.

Esalava autorità in ogni suo gesto, eppure non se ne servì mai per imporre un veto alle mie scelte progettuali. Si limitava a lanciare uno stimolo, che spesso in un primo momento risultava incomprensibile ai miei occhi e soprattutto poco inerente alle mie intenzioni. Solo a seguito di molto studio, capivo ogni volta, che gli era bastato uno sguardo per sbrogliare i miei disegni intricati e darmi la direzione per estrarre da quel guazzabuglio una frase che valesse la pena di essere pronunciata.

Del resto, l'architettura non è altro che un pensiero ben formulato che acquista entità fisica. Il resto è solo edilizia.

A pranzo incontrai Erica che fremeva per avere notizie degli ultimi giorni. Chiesi perdono anche a lei, che avevo trascurato insieme alle mie responsabilità. Ma sapevo che il piccolo fiore prospera con tenacia, nonostante i momenti di incuria, laddove decide di affondare le radici. Fui dunque riconoscente e promisi cura e lavoro nel coltivare quelle fortune che mi erano capitate.

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