5. IL MIO REGNO PER UN MASCARA

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Il giorno dopo era un lunedì.
E già questa frase dovrebbe essere sufficiente a suscitare una cornucopia di singhiozzi disperati.

Bisogna però aver studiato architettura per capire fino a che punto un lunedì di revisione possa essere tremendamente lunedì. Quel giorno avrei dovuto rendere conto del lavoro fatto nelle ultime due settimane. Avevo dormito non più di un paio d'ore per terminare le tavole e stampare in tempo.

Come risultato, ero arrivata trafelata in università, carica di rotoli e rotoli di disegni, ma anche di portatile, zaino con libri e quaderni, borsa del pranzo e, infine, pezzi sparsi di un modellino esplicativo, la metà dei quali era rimasto incastrato fra i miei capelli.
Comprensibile, dato che mi ci ero addormentata sopra. Chiaramente il mio aspetto era conseguente alla situazione. Mi ero vestita al buio dei miei occhi chiusi, troppo assonnati per affrontare la luce del giorno. Di trucco neanche a parlarne.

Mi presentai in aula con più occhiaie che anima. E non ero nemmeno la più sconvolta della classe.

Nonostante le premesse, la discussione del progetto sortì reazioni soddisfatte, il che mi rese piuttosto euforica.
Mai come il suo messaggio che trovai poco dopo.

-Se ti fa piacere, in pausa pranzo passo a salutarti.
Gioia e tripudio.

-Certo, stacco all'una. Ci vediamo in università- Inviai poco prima di scorgere il mio aspetto nel riflesso della finestra.

Fui colta dallo sconforto. Volai in bagno per quantificare i danni. Fra l'occhio iniettato di sangue, la capigliatura a nido di rondine e le combinazioni cromatiche da attacco epilettico del mio abbigliamento, assomigliavo più a un lama peruviano ubriaco che a un essere umano.
Attimi di disperazione. Aydin non era pronto ad affrontare una studentessa di architettura in assetto da consegna.
L'unica soluzione era un'opera urgente di restauro straordinario. Era mezzogiorno, avevo un'ora. Il mio appartamento distava venti minuti a piedi dall'università. Potevo farcela. Mi lanciai al galoppo alla volta della dimora.
Poco dopo, la mia coinquilina si vide piombare in casa una pazza in piena crisi psicotica. Vagamente allarmata, aveva accennato alla porta del bagno un timido:

-Tutto bene?

-Siscusaminonhotempoadessotispiegostaseraciao- Le avevo urlato mentre mi catapultavo fuori di corsa, rischiando seriamente di cambiarle i connotati nello sbattermi alle spalle l'uscio di casa.

Arrivai in università con cinque minuti d'anticipo. Giusto in tempo per farmi trovare all'uscita e lanciarmi in un disinvolto e più che rilassato:

-Ah eccoti! Ho appena finito lezione.

Giuro che non ho mai fatto tanta fatica per un uomo.

Ci sedemmo al bar dell'ateneo, a osservare il viavai di plastici ciclopici, scorrazzati in giro da qualche paia di gambe. Per me faceva parte della quotidianità, lui trovò la visione piuttosto comica. Cucciolo.

Dato il contesto, mi chiese il perché di quella che gli sembrava più una scelta di vita bislacca che un percorso di studi.
Gli spiegai che nonostante il favoloso ammontare di ore di sonno perse, nonostante il rischio di ulcera gastrica causata da stress e dal numero esorbitante di pizze d'asporto mangiate di corsa davanti al computer, insomma, nonostante la vita mediamente di merda a cui, in effetti, spesso mi riducevo, ero pazzamente innamorata della mia materia.
I motivi erano i più svariati: la ginnastica mentale grazie alla quale passavo con discreta disinvoltura da considerazioni filosofiche sui massimi sistemi, ad arrovellarmi sul disegno della colonna del cesso era uno di questi.
La trovavo poi uno strumento per leggere il mondo e non subirlo.
Mi aveva insegna ad avere fame di Bellezza.
Aveva inoltre messo sul mio cammino una serie di personaggi improbabili a cui ero indissolubilmente legata.

Forse dipendeva dal fatto che dopo mesi di tappe forzate, arrivava regolarmente il momento degli esami o comunque un traguardo imposto in cui ero costretto a mettere un punto. Mi rendevo allora conto che il mio lavoro non consisteva solo in una serie di nozioni incamerate, al contrario, era tangibile, aveva forma, colore e dimensione, era l'espressione fisica del mio pensiero, potevo vederlo, toccarlo. E ogni volta che ciò accadeva rimanevo stupita della gioia e orgoglio che mi riempivano il petto nell' osservare quel figlio, fatto di balsa, sangue, teorie ancora traballanti, inchiostro a getto, notti insonni, carta da centoventi grammi e passione.

Potevo solo immaginare l'emozione che avrebbe significato, un giorno, vedere sostituiti, alla balsa il cemento, alla carta l'acciaio e al mio lessico architettonico ancora stentoreo, un'elegante sintassi compositiva.

Non so se la mia filippica lo convinse. Sta di fatto che il giorno dopo mi invitò a uscire.
Ovviamente accettai.

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