26. NATALE

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Sono tistissima e felicissima.
Tristissima perché ormai non manca molto, siamo in direttura d'arrivo e già so che questo piccolo rito quotidiano mi mancherà un sacco!
Felicissima perché siamo a 2000 visulizzazioni, e vi ringrazio quindi di averlo condiviso con me. :**

Le giornate, più che volare scomparvero, e Natale, più che arrivare ci aggredì.

Ero inquieta, avevo sempre amato passare le festività in famiglia, ma quell'anno significava rinunciare a qualche giorno di quei tre brevissimi mesi, tanto più che i due terzi erano già trascorsi. Anche Aydin si sarebbe assentato da Milano per l'occasione. Una sera ci stavamo raccontando i reciproci programmi. Lui si lamentava di dover tornare a casa di sua madre.

- Saremo in tre. Io e i miei, come sempre.

Sorrisi. Noi saremmo stati in ventiquattro. Come tutti gli anni io e le mie cugine quasi trentenni ci saremmo sistemati al tavolo dei bambini insieme al resto della minutaglia che andava dai due ai diciassette anni. Avremmo urlato per coprire il baccano, capito poco, riso molto. Ogni tanto ci saremmo interrotte per ripulire qualcuno dei piccoli dopo che si fosse spalmato gli antipasti sulla faccia.
Nonna avrebbe preparato i tortellini in brodo, le zie gli antipasti e gli arrosti, mia madre i contorni.
Gli uomini non avrebbero fatto niente di niente.
Il tavolo degli adulti sarebbe stato intrattenuto da zio Severino che si sarebbe esibito nelle sue battute, ogni anno le stesse, e tutti si sarebbero sbellicati di gusto.

Dopo cena l'eccitazione dei bambini sarebbe diventata incontenibile e se non ci fossimo disposti in posizione di sicurezza avremmo rischiato di venire travolti da piccoli bolidi ad altezza stomaco, che sfrecciavano per la casa nella ricerca febbrile dei regali, accuratamente nascosti.

Era un rito codificato a cui ciascuno di noi partecipava volentieri. Per noi figli ormai adulti era lo strascico di un'infanzia felice di cui eravamo grati. Per tutti la manifestazione di un'alleanza di ferro, cementificata da affetti incondizionati.
Ciascuno di noi durante l'anno costruiva la sua vita con le proprie forze, nelle più svariate parti del globo, ma -sapevamo- se uno solo fosse stato in difficoltà, avrebbe tempestivamente ottenuto un aiuto disinteressato e silenzioso prima di doverlo chiedere. E questa certezza era assoluta, proprio come quella ricorrenza annuale.

Mentre gli parlavo di tutto questo notai che la sua espressione si rabbuiava, cominciò a barricarsi dietro il sarcasmo, segno che qualcosa non andava. Aveva sempre parlato mal volentieri della sua famiglia e della sua infanzia, che per me continuava a rimanere un gigantesco punto interrogativo. Provai ancora a farlo raccontare, gli posi qualche domanda a cui rispose a monosillabi. Cercai allora di stimolare qualche suo ricordo condividendo con lui alcuni dei miei, mi colpì con una battutaccia glaciale.
Mi irrigidii ma non mollai la presa, non stavolta.

-Ehi.

Sussurrai con tutta la dolcezza di cui fui capace. Gli accarezzai il dorso della mano. Col tempo avevo imparato come farlo uscire dalla difensiva. Dopo questo gesto di apertura non aggiunsi altro, attesi soltanto che si prendesse i suoi tempi.

Fece un lungo sospiro e finalmente cominciò a raccontare.

Lo vidi bambino, sempre straniero, in qualunque occasione, sempre in lotta, sempre in tensione, per essere all'altezza, anche dei suoi genitori. Questi ultimi ai suoi occhi si erano macchiati di un peccato imperdonabile: quello di donargli le ali della musica per poi chiuderlo in gabbia. Non avevano mai dato credito alla sua aspirazione di guadagnarsi da vivere con quello che per lui era una necessità piuttosto che una passione. Avevano preso atto con piccata indifferenza dei suoi successi sempre più eclatanti, e solo la sua irriducibile ostinazione e volontà di rivalsa gli avevano permesso di proseguire.

Allora capii. Capii il suo ringhio costante, riflesso incondizionato che aveva sviluppato fin da bambino, contro un ambiente che gli aveva fatto guerra dacché aveva avuto la facoltà per comprenderne gli attacchi. Non fu mai una battaglia dichiarata, che avrebbe forse generato una sana e definitiva ribellione, seguita poi dalla catarsi. Al contrario, la subdola e strisciante serie continua di rappresaglie era responsabile di quella rabbia asfissiante che scagliava indiscriminatamente verso tutto e tutti.

E allora mi sentii talmente forte, sulle granitiche fondamenta della mia infanzia, in cui ero stata amata incondizionatamente; talmente libera, sul trampolino della fiducia illimitata che i miei genitori riponevano e mi avevano, nonostante tutto, insegnato a riporre nelle mie capacità. Lui, quel diritto a sperare, se l'era guadagnato da solo, con le unghie e con i denti, a suon di mortificazioni e successi.

E amai teneramente quel bambino stanco nel corpo di un gigante. E mi resi conto che potevo accettare i suoi strali, come una madre che accetta dolcemente i pugni di un infante durante un eccesso d'ira.

La fiera selvatica dei primi giorni aveva perso il suo ruggito spaventoso. In compenso, aveva guadagnato la parola, e ne capivo finalmente il linguaggio.

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