Prologo✔️

8.2K 351 68
                                    

Non ho mai capito davvero mia madre.

Credo sia una specie di regola universale o dogma a cui non si può fare a meno di dare ragione: io dicevo una cosa e mia madre faceva l'opposto e viceversa. A volte si deve sbagliare per capire a pieno il proprio errore. Almeno, così la penso io.

Alcune volte le persone nemmeno si rendono conto degli altri facendo le loro promesse che, in alcuni casi, e nel mio sfortunatamente, non coincidono perfettamente con le opinioni dei figli. Non so esattamente come definire Lacey Miller se non come "inguaribile romantica". Mia madre era una di quelle persone che credeva davvero nel vero amore, quello che comporta baci sotto la luna, lunghe camminate sulla spiaggia o cucinare insieme, ma anche film in pigiama e maschere di bellezza condivise. A pensarci bene, il vero problema era un altro; non sapeva distinguere i suoi veri sentimenti da un bisogno patologico: il sentirsi apprezzata.

Era questo il suo peggior difetto.

Ma mia madre era anche una persona coraggiosa, piena di vita e io l'ho sempre ammirata. Per questo e per quello che ha sempre cercato di fare alle mie spalle: proteggermi.

In quel momento mi sentivo sola. Troppo sola. Di lì a poco avrei dovuto dire addio alla mia vecchia casa a Sydney, al mio solito letto sfatto, con le lenzuola coperte dall'odore di mare e sale, oramai impregnate da anni. Avrei dovuto salutare la mia altalena in giardino, un vecchio ammasso arrugginito giallo e rosso, dove non ci salivo più da quando avevo quattro anni. Avrei dovuto dire addio ai miei ricordi di mio padre e mia madre insieme e, stranamente, quella mi parve davvero come la fine del mondo.

Ero sdraiata sotto il letto in camera mia, piegata ad incidere il mio nome sul muro della camera e sperare, nello stesso momento, che mia madre non arrivasse e mi tirasse fuori dal mio nascondiglio per le caviglie, sequestrandomi il mio cacciavite verde. Apparteneva a mio padre, Luke Leeroy. Lo avrei portato con me.

Incisi: Chanel Isaac Leeroy — 19 dicembre.

Rimasi a fissare la mia scritta. Sapevo che non l'avrei mai più rivista, ma mi consolava il fatto che, prima o poi, qualcuno l'avrebbe trovata e si sarebbe chiesto chi ero e che cosa stavo facendo. Il fatto era che volevo lasciare in quella casa qualcosa di me, qualcosa che non me l'avrebbe fatta abbandonare per sempre.

Sentii mia madre urlare il mio nome dal bagno, segno che a) dovevo spicciarmi a infilare le mie ultime scatole in macchina o b) le era caduto il tappo dell'eyeliner e non riusciva più a trovarlo. In quell'appartamento non serviva che urlasse nessuno per via delle pareti poco spesse, il che era un altro punto a sfavore. Se io avessi tossito, mia madre, dal bagno in fondo alla casa, mi avrebbe sentita alla perfezione.

Rotolai fuori da sotto il letto e mi spazzolai i vestiti prima che lei facesse ingresso nella mia stanza.

Lacey Miller mi guardò togliermi gli ultimi granuli di polvere dai miei pantaloncini corti e si fece velocemente una coda alta, il collo bagnato dall'estenuante caldo australiano. Aveva i capelli troppo corti perché le stessero pienamente in una coda di cavallo degna di quel nome, ma a quanto diceva lei aveva smesso di preoccuparsi delle opinioni della gente già da anni. I suoi capelli ramati le scivolavano fuori dall'elastico blu, ma era bella. Abbastanza bella da trovare ancora un marito.

«Sei pronta, tesoro?» mi domandò lei. Alzai una spalla, fissando l'asse della porta. Lacey ruotò gli occhi e fece un sorrisetto. «Oh, guarda, ci sono ancora tutti. Eri un vero scricciolo quando tuo padre ti segnò per la prima volta» ridacchiò.

Sul cardine della porta, disegnati sul legno, c'erano sedici tacchette nere, tutte ad altezza diversa. Mio padre aggiungeva una linea ogni anno, anche dopo che se ne andò di casa.

Era davvero passato così tanto?

Posai una mano sul legno e lo sfregai, come se i ricordi legati ad esso potessero seguirmi.

«Sei pronta?»

«Certo. Ti raggiungo in macchina.»

«Chiudi la porta» mi avvertì, lasciandomi sola.

Ci impiegai altri tre minuti giusti: presi un pennarello nero e segnai la mia ultima altezza. 1,64 m. Presi la mia borsa e il mio scatolone di cartone e me ne andai, lasciando la mia camera vuota, lugubre come la casa.

Dal 19 dicembre sarebbe iniziata la mia nuova vita con i Petronovik.

Bad Bro - BluebeardDove le storie prendono vita. Scoprilo ora