Cap. 14

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14. Just one yesterday

Lauren's POV

~

Sono davanti alla mia tavoletta grafica, il pennino in mano e la fronte corrugata in un'espresisone concentrata.
Non ho ancora trovato un soggetto da immortalare nel mio disegno.
Ho così tante idee in testa, ma troppa confusione.
L'ispirazione intensa non si fa vedere da un po' di giorni.
Beh, in realtà da molto di più.
Da mesi...
Da anni...
Potrei anche focalizzarmi meglio se non fosse per i continui lamenti di zia Grace.
"Lauren! Lauren... Scendi, aiutami" urla dal piano di sotto.
Chiudo gli occhi e prendo un respiro profondo. Non posso ignorarla, in fondo non è colpa sua se non ci sta più con la testa.

Poso il pennino sul tavolo e mi affretto a scendere le scale per trovare mia zia buttata sul divano rosso del salotto.
Il caminetto è acceso, come sempre nei mesi invernali, e lei è sdraiata in malo modo con le braccia che coprono la faccia.
Sospirando, mi avvicino per vedere cosa le sia capitato.
Un altro crollo nervoso.
Vedo la scatola delle pillole rovesciata sul tappeto e sgrano gli occhi.
"Zia Grace... Ti sono cadute le pillole a terra?" chiedo con cautela, pur sapendo che la faccenda si sia svolta in un altro modo.
"Sì... Che sbadata sono" sorride lei, sembra una bambina.
Mi accuccio davanti al divano e le scosto una ciocca di capelli dal volto.
"Zia, non devi toccare le medicine a meno che non ci sono io con te, ricordi?" la richiamo dolcemente, per non farla alterare.

Ho imparato a mie spese che non ci si può arrabbiare con un soggetto che soffre di forti sbalzi d'umore causati da una sindrome depressiva.
La donna annuisce mortificata e poi chiude gli occhi.
Mi volto e raccolgo le pillole blu, riponendole nel tubetto.
So che ha preso qualche pasticca di troppo, altrimenti adesso non sarebbe priva di sensi.
Ma sono passati due anni da quando tutto è successo, e ormai mi sono arresa al fatto che zia Grace non tornerà mai più come prima che sua sorella morisse.
Afferro una coperta di lana e gliela stendo sulle gambe, uscendo dalla stanza per lasciarla dormire.
Ho una mezza idea di tornare nella mia cameretta, ma poi decido che sarebbe meglio approfittare dello stato momentaneo di incoscienza di mia zia per prendere una boccata d'aria prima che lei si svegli e si faccia venire il panico perché non mi vede in casa.

Indosso un cappotto che abbottono per bene per ripararmi dal freddo ed esco dal portone, chiudendolo a chiave.
Passeggio senza meta per una mezz'oretta, finché non transito davanti ad una porta che come numero civico ha il 726b.
Mi è inevitabile pensare alle voci che ho sentito su quella casa e su chi la abita e mi fermo sul marciapiedi, riflettendo su che fare.
Non ho mai considerato l'idea di possedere un'arma ma si sa che chiunque abiti nella periferia ne ha la necessità. Soprattutto per il fatto che io e zia Grace abitiamo da sole e potremmo essere aggredite da chiunque in qualunque momento, proprio come è capitato a me non più di un mese fa.
Dopo un ultimo attimo di esitazione, suono al campanello e attendo.

Richard Mickway o, come lo chiamano tutti nel quartiere, Rick Rock, apre poco dopo un paio di minuti.
"Chi sei?" mi domanda subito, guardando oltre le mie spalle per assicurarsi che non sia accompagnata. "Un possibile compratore" affermo, determinata.
L'uomo alza un sopracciglio, un po' sorpreso dalla mia sicurezza.
"Entra" dice solo, prima di sparire dietro l'uscio. Lo seguo senza esitazioni.
La casa, come qualsiasi altra collocata in questo quartiere, è squallida e minuscola.
Mi guida in uno stanzino che va ad aprire con una chiave arrugginita.
"È la prima che compri?" mi chiede, mentre prende un paio di valigette e le posa sulla scrivania.
"Sarebbe anche la prima che uso" ci tengo a puntualizzare.
"Uh... Ci scommettevo. Ho qualcosa che fa al caso tuo" dice, tirandone fuori una e progendomela con la massima cautela.
La squadro un attimo, indecisa sul prenderla o meno.
Afferro l'arma e la impugno.
"Glock 21, calibro 45" dice, mentre io la guardo da diverse angolazioni e la punto contro il muro.

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