Assassino

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-Den, hanno bisogno di te giù.- la voce di Leonardo mi coglie alla sprovvista, forse mi ero addormentato. È entrato nella stanza senza che me ne accorgessi, e ora ha una mano sulla mia spalla. -Forza.
Lo seguo fuori dalla stanza, non prima di aver rivolto uno sguardo preoccupato alla ragazza abbandonata sul letto.
In sala tutti si sono accomodati, così seguo il loro esempio. Odio queste assemblee tipo centro di recupero, durante le quali ci sediamo tutti sui divani disposti in centro e parliamo dei problemi della vita.
-È importante decidere il da farsi. Non possiamo tenerci in casa una in coma.- sbadiglia Davide.
-Non dire cazzate, non è in coma. È solo svenuta.
-Dobbiamo portarla in ospedale.- Jev si passa una mano tra i capelli, nervoso, il ginocchio che tamburella contro il bordo del tavolino al centro dei divani.
-Ma smettetela.- intervengo io. -Sta benissimo. Ha solo bisogno di un po' di proteine e carboidrati. Nessuno si è accorto che non tocca cibo da giorni? È stato solo un calo di pressione. Sarà stata esausta dalla situazione.
-Non fare il saputello di merda, fratello.- Borbotta Drew, alzandosi difficoltosamente in piedi. È ubriaco fradicio, come al solito. E come al solito non perde l'occasione per ricordarmi che non c'era una scuola nell'Istituto. È come se mi attribuisse la colpa di quella merda, come se io ne fossi il diretto responsabile. Lo fa sempre.
-Non c'è bisogno di aver studiato per capirlo.- mi difendo. Se solo lui sapesse, se solo tutti sapessero le notti passate sui libri regalatimi di nascosto da quella donna stravagante, sepolto sotto quel fin troppo esile strato di coperte, la piccola torcia stretta fra le labbra, mentre la fame mi divorava. Quanto duramente mi picchiò la guardia notturna, accorgendosi che ero ancora sveglio, una di quelle infinite notti? E quante le amare e vergonose lacrime cadute a bagnare quelle pagine, quante le ore passate anche in questa villa a ripetere quelle parole? Quanti anni avevo, e quando esattamente mi sono arreso all'evidenza, forse quando le università si sono rifiutate di accettarmi dato il mancato diploma di maturità, nonostante già a quindici anni avessi una preparazione superiore a quasi qualsiasi maturando? Eppure nemmeno tutte quelle nozioni possono aiutare in qualcosa in questo momento. So cosa le sta succedendo solo perché l'ho vissuto anche io.
-Acqua e zucchero.- propongo. -Qualcuno le dia acqua e zucchero, e finisce qui. Magari anche un bel panino.
-Occupatene tu, Jev. E poi, voglio una gestione diversa. Vi siete dimenticati il valore della ragazzina, o cosa?- ringhia Jacopo.
Restiamo tutti in silenzio.
Cinque minuti dopo, asciugo con la mano il fondo del bicchiere e tolgo il cucchiaino dall'acqua zuccherata.
-Dammi, gliela porto io.- Jev mi mette una mano sulla spalla, mentre mi prende il bicchiere. -Vai a sdraiarti, Daniel. Stai male.- mormora con voce rauca, uscendo dalla cucina.
Sto di merda, ma non avrei mai trovato il coraggio di ammetterlo. Jev è fatto così: va oltre all'evidenza, cerca la verità insita nelle cose, e lo fa senza nemmeno accorgersene. Gli viene naturale.
Lentamente torno in camera mia, evitando mio fratello ubriaco sulla seconda rampa di scale. Quando entro nella stanza, la vista appannata per lo sforzo, riconosco a malapena il profilo minuto di un bambino. Gli faccio un cenno di saluto mentre chiudo la porta, per poi sedermi sul letto.
Elijah mi si siede accanto, gli occhioni azzurri fissi alla finestra. Penso che il colore degli occhi sia l'unica cosa che gli ho trasmesso, per il resto potrebbe essere tale e quale sua madre. Se solo mi ricordassi il volto, della madre. La prima volta che lo presi in braccio, penso avesse quattro anni, ricordo che pensai: "Non posso tenerlo. Se lei non lo vuole, lo daremo in adozione". Poi lei mi disse che era mio figlio, che era nostro figlio Che non poteva tenerlo perché voleva studiare, voleva avere una vita. Ma io, si sapeva, io ormai mi ero arreso a non averla, una vita. Io ero stato condannato a sei anni, e non mi sarei più riscattato. Mi disse che si chiamava Elijah, che non era registrato all'anagrafe, che pesava 17 chili. Che non l'avrei più rivista, di non provare a cercarla. Che, wow, ero diventato padre. Se ne andò con la stessa velocità con cui era comparsa. E la parola 'adozione' ricordo mi frullò nella testa per ore, ore, giorni, mesi. Ma come potevo io, Daniel Bergamini, decidere il destino di un bimbo così piccolo? Assicurargli la stessa infanzia che avevo vissuto io, la stessa terribile infanzia? Mio figlio. Non il frutto di un amore, ma il frutto di un errore. Elijah è nato condannato.
-Ehi, campione, papà è stremato. Vai a giocare di là.- gli dico. Ho veramente bisogno di riposare.
Elijah eesta a fissare fuori dalla finestra, e ancora una volta mi chiedo quanto sia strano quel bambino. A malapena parla. Non posso combattere anche contro di lui, o ne uscirò morto. Mi sdraio e lo lascio lì, seduto sul bordo del letto, immerso nei suoi pensieri. Ci metto un po', e finalmente mi addormento.

Ma se non sono cause esterne a non farmi dormire, sono interne: i sogni, ancora una volta, prendono il sopravvento. E lo so che è un incubo, stavolta: non lo vivo in prima persona, sono lì che assisto impotente senza riuscire a svegliarmi. Sembra tutto così reale, eppure non lo è.
-Denny. Denny, amore! Amore, svegliati, la mamma deve accompagnarti a scuola e poi va al lavoro. Dai, Denny, svegliati.- mia madre mi scuote per la spalla: sono di nuovo piccolo, di nuovo a casa. L'odore di bucato misto a caffè bruciato si insinua nelle mie narici e vengo investito da uno strano senso di malinconia.
-Eric, sveglia tuo fratello. Dovete andare a scuola.- ripete la mamma con il tono più severo, prima di uscire dalla stanza.
-Alzati, coglione.- ecco il mio fratellone.
-Denny!!!- è mia madre a urlare ancora, dalla cucina, dieci minuti dopo.
-Denny, non rompere il cazzo e alzati. Muoviti.- Eric mi strappa le coperte di dosso e mi toglie il cuscino da sotto la testa, ma rimango immobile. Ho sonno. Finalmente mi lascia stare per un po', poi torna all'attacco.
-Daniel, non fare lo scemo, svegliati. Sono già le sette e mezza. La mamma si incazza.
E io faccio finta di niente, resto fermo facendo finta di dormire.
-Ma stai bene?
Certo che sto bene, ma ho solo sei anni e penso che sia uno scherzo divertente, quindi sto zitto. Poi la voce di mio fratello cambia: diventa quella di lei. È la voce di Bambi che parla. Dice:
-Ho paura, Denny. Ho tanta paura.
E allora apro gli occhi: Eric è pallido, il suo corpo da tredicenne non lo regge mentre cade in ginocchio, una mano sullo stomaco, rivoli di sangue tra le dita.
-Aiutami, Denny.- ansima, ha di nuovo la propria voce. Ma io sono paralizzato, non riesco muovermi. Vorrei fare qualcosa, qualunque cosa, ma non faccio nulla. Sto lì, a guardarlo, specchiando i miei occhi di un azzurro acceso nei suoi, cerulei.
-Non è colpa tua, Denny.- la bocca di Eric si muove a formare queste parole, ma la voce non è la sua: è quella della psicologa Dell'Istituto.
-Ho paura, Denny.- Bambi.
-Il mio bambino... Non è così poetico, l'amore che si mischia alla morte?- mia mamma.
-Corri, Denny! Corri!- è mio papà.
-Non è colpa tua, Denny.- di nuovo la psicologa.
Eric è accasciato, ma i suoi occhi azzurri sono puntati ancora sui miei. È sconvolto, le labbra semiaperte, un'espressione di infinito dolore. Vorrei poter allungare un braccio verso di lui, accarezzarlo. Ma non riesco.
-Perché l'hai fatto, Denny! Era pericoloso!- ora è proprio lui a parlare. -Non stare lì fermo, chiama la Mamma! Denny!!!
La fitta lancinante di dolore alla spalla mi costringe a cadere sdraiato sul letto: il mio pigiama si sta imbrattando di rosso, sento il cuore pulsare nelle orecchie e le urla di mio fratello attutirsi. Il rumore di un triplo sparo, però, lo sento chiaramente e continua a rimbombare nella mia testa.
-Non è colpa tua, Denny. Non avresti potuto fare niente per salvarlo, lo sai. Del resto, sei e sempre sarai un inutile ragazzino. È un peccato che lei abbia sbagliato la mira... Porterai solo guai in questo mondo. - commenta la psicologa, il tono aspro. Derisorio. L'ha detto davvero, anche nella realtà. La realtà. La realtà.
Mi sveglio urlando, le mani nei capelli neri madidi di sudore. Ho il corpo in fiamme mentre fitte lancinanti mi trafiggono la testa.
-Elijah!- chiamo, la voce rotta, disperata, patetica. Ma lui non è più qui. Sono solo. Ancora una volta.
Accendo la luce sul comodino e guardo l'ora: 1,56. Cerco di calmarmi mentre tento di afferrare il cellulare, il tablet o qualsiasi cosa possa distrarmi. Il sangue che scorre tra le dita di mio fratello... il suo sguardo. "Perché l'hai fatto, Denny! Era pericoloso!" È colpa mia. L'ho ucciso io. L'ho ucciso io. Chiudo gli occhi e penso a Bambi sopra di me l'altra notte, a come le sue braccia sottili mi avvolgevano, come se volessero proteggermi da tutti i mali. Se solo sapesse...
Guardo di nuovo l'orologio: sono le 2,01. La notte è ancora giovane.

Sono un assassino. Ho ucciso mio fratello.

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