Stefania e Dio

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Jacopo's POV

-Una ragazza?!- domando incredulo.

Mio padre mi fissa sotto le sue folte sopracciglia, con un guizzo curioso negli occhi.

-Sì, beh, non è una domanda futile. Qualcuna mandatati dal Cielo che ti faccia battere il cuore?- si spiega, sorridendo.

Uno stupido, storto, sorriso, composto da pochi denti ingialliti dal fumo e labbra tirate in una smorfia più simile al dolore che alla felicità.

Eppure so che è un sorriso onesto: da quando si è avvicinato a quegli inutili ideali cattolici, gli si è bruciato anche l'ultimo neurone che la droga gli aveva risparmiato.
Bei tempi quand'ancora era ateo e vedeva il mondo per ciò che è, ovvero una palla ricolma di merda, invece che una incantevole creazione di Dio.

-No.- sputo cercando di far trapelare meno irritazione possibile dal mio tono di voce. Mi dispiacerebbe essere maleducato con mio padre, soprattutto ora che in lui abita una persona completamente diversa che reincarna gli ideali della cristianità.

C'è confusione intorno a noi: o il carcere si è affollato di carcerati o con il passare del tempo la stanza delle visite si è rimpicciolita. Adesso un tavolino con una coppia di ragazzi sedutivi è proprio di fianco a noi, ad un massimo di un metro di distanza. Sono sicuro che fino a due anni fa i metri di distanza tra un tavolo e l'altro fossero tre o quattro.

-Sicuro?- insiste mio padre con un appunto o di delusione, come se  avesse sperato (e non avesse smesso di sperare) in questo.

Lancio uno sguardo ai ragazzi accanto a noi: lei tiene la mano sopra quella di lui, in un gesto naturale e sinceramente affettuoso, mentre lui le racconta cos'ha mangiato a cena ieri sera. Quando una guardia ulula che il contatto fisico è vietato, lei trasale spaventata e sposta la mano verso di sé. L'indice di quella stessa mano, però, si protende verso il mignolo della mano di lui, che si muove impercettibilmente verso di esso.

Se l'amore è questo, io non lo voglio. Non voglio ritrovarmi tra cinque anni chiuso in gattabuia a pregare che sette giorni passino svelti, solo per poter sfiorare un millimetro quadrato di un dito della persona che amo. Questo non sono io.

-Sicuro, pa'.

-Pensa: il mio unico figlio maschio, innamorato.- l'idea pare allettarlo in modo particolare, tant'è che il suo sorriso si allarga ancora di più. Posso giurare di vedere una crepa aprirsi nel centro del suo labbro inferiore.

Per un brevissimo istante penso a quanto mi sentirei fortunato se, in un futuro non così lontano o improbabile, Tessa venisse a trovarmi tutte le settimane solo per parlare per un'ora. Niente sesso, niente droga. Solo io e lei, un'ora a settimana, in una sala comune del carcere. Sarei un uomo fortunato.

Più ci penso, più mi convinco che Tessa non lo farebbe mai. Tessa è solo una ragazzina viziata che sa come attirare l'attenzione. Per dar aria alla bocca, decido anche di dirlo a mio padre.

-Mi scopo una occasionalmente. Una in particolare, dico.

-Jacopo... Sai come la penso. Si fa l'amore solo per procreare, non per divertirsi.- mi riprende.

"Da che pulpito."

Mi mordo la lingua per non far uscire parole di troppo peso, mentre mi saltano in mente le puttane che si portava in casa quando ero più piccolo. Rifugiati in camera nostra per via degli orari notturni, mia sorella mi tappava le orecchie per non farmi sentire le loro grida di piacere e io facevo lo stesso con lei, senza capire esattamente il perché. Mi limitavo a imitare i suoi gesti. Così ci trovavamo inginocchiati sullo stesso letto sfatto, l'uno di fronte all'altra, a tapparci le orecchie a vicenda. Quattro braccia tese, quattro occhi fissi, ad unire due fratelli.

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