La mia famiglia

85 5 0
                                    


-Vuoi guardare un po' di tv da me?

Daniel mi guarda con uno sberluccichio speranzoso negli occhi. Oggi è strano: sembra più allegro del solito; l'ho visto ridere a crepapelle, mi ha portata in cucina a mangiare, ha sopportato la mia crisi di nervi e ora mi chiede di guardare la televisione da lui.

-Sei strano oggi.

-Quindi ci vieni?

-In camera tua?

-Sì. Ci vieni?

Perché dovrebbe invitarmi a stare da lui? Un campanello d'allarme suona all'impazzata nel retro del mio cervello, ma decido di ignorarlo.

-Ci vengo.

Ora che ho il permesso di starci dentro, non sono le quattro del mattino e vengo da una serata divertente, la stanza di Daniel sembra diversa. L'armadio in cui avevo frugato ora è aperto: da una parte sono impilate magliette, dall'altra camicie e jeans e pantaloni formali, insieme a giacche e maglioni, sono appesi alle grucce in alto. Per esperienza so che nei cassetti sottostanti si trovano le tute e le felpe.

-Non pensavo fossi un tipo da camicia.

-Non pensavo fossi un'impicciona.- ribatte, chiudendo l'armadio con una mano e accendendo la tele con l'altra.

Il letto matrimoniale è sfatto. Le lenzuola non sono nere come mi ricordavo, ma blu notte, e dei boxer grigi e una maglietta bianca sono stati abbandonati sul bordo del letto. Per terra non c'è tanto disordine come nella camera di Jev, ma abbastanza da ricordarmi che è un maschio: un CD (rotto), calze, due magliette in un angolo della stanza, il caricatore del cellulare, una pallina da tennis, delle monetine, una penna Bic.

-Cosa vuoi guardare?

-Quello che vuoi.- rispondo in automatico. Sono troppo concentrata ad esaminare questa stanza, per pensare a cosa guardare. È tutto così banale, tutto così essenziale: non c'è niente che potrebbe descrivere Daniel, ma niente che potrebbe non descriverlo. Sono oggetti comuni, disposti in un ordine comune, di colori comuni. È tutto anonimo.

-Non hai robe tue?- gli chiedo, non appena scolla gli occhi dal display e me li punta addosso. Sono due fanali color cielo.

-È tutta roba mia, questa.

-Ma sono cose che ho anch'io, queste.- borbotto, alzando una scatola di fazzoletti per aria e un porta-matite nell'altra.

-Beh, ho un sacco di libri che tu non hai, scommetto. Però sono in biblioteca. Anzi, non è una vera biblioteca: è un'enorme stanza piena di scaffali vuoti e impolverati. Ecco, su alcuni ci sono i miei libri.

Sostiene di avere molti libri, e questo è strano. Uno non è che si sveglia la mattina e dice "Io, di mio, ho molti libri". Non uno come Daniel.

-Vabbè, ma tu mica ci vivi, in biblioteca.

-Manco qui. Io non vivo da nessuna parte, non ce l'ho una casa. Mai avuta. Però quando me ne vado da qui, ce l'avrò.

Daniel parla apparentemente senza dare molto valore alle parole, come se ciò che stesse dicendo non lo toccasse minimamente. Lo guardo stravaccarsi sul puff verde chiaro ai piedi del letto, con uno sbuffo affaticato. Io non so come mi sentirei al suo posto: senza famiglia, senza casa, come dice lui. Ha una stanza dove dorme, una cucina dove mangia, ma non ha un posto che può chiamare casa. Non l'ha mai avuto. Non esiste un luogo suo, in cui è raccontata la sua storia, costellato di oggetti che possano raccontare di lui. Io non ho dei genitori eccezionali, casa mia è minuscola e faccio fatica a viverci, ma ho sempre avuto una camera mia, dove conservo tutti i miei ricordi. Ho un pianoforte, un sacco di spartiti sparsi ovunque, medaglie che ho vinto quando da piccola facevo aikido, foto con i miei amici, regali che ho ricevuto, fogli con i miei pensieri, poster di Tiziano Ferro e della Focus Junior, a cui sono stata abbonata per anni da bambina.

BambiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora