La fatalità del pollo a cena

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Jev's POV
Il giorno dopo mi sveglio seduto in corridoio, la schiena appoggiata sulla porta della stanza della ragazzina. Ieri notte l'ho riportata a forza lì dentro, e mi sono assicurato che la serratura fosse chiusa a chiave. Dopodiché mi sono seduto qua fuori, ad aspettare non so cosa, sapendo che lei si era accasciata come me dall'altra parte della porta. Potevo sentire i suoi singhiozzi, ma lei non poteva sentire me. Probabilmente pensava me ne fossi andato. Mi alzo a fatica, le gambe stropicciate, e apro la porta che ieri notte ho chiuso con fin troppa violenza. Ho dimenticato le chiavi nella sua stanza, e lei ne ha subito approfittato: se c'è qualcosa che non sopporto, è essere preso per il culo.
Lei è sdraiata su un fianco, il corpo abbandonato sul parquet, la schiena appoggiata al muro verso il corridoio. Era così vicina a me... I suoi occhi sono chiusi, le labbra leggermente aperte, le guance ancora sporche dalle lacrime. È piccola. Ha solo diciassette anni...
-Ehi.- sussurro, accarezzandole il viso. Non risponde, per cui faccio scivolare un braccio sotto le sue ginocchia e uno sotto le spalle, sollevandola e appoggiandola sul letto. L'adagio sul letto e poi le tiro sopra le coperte fino al naso. Tiro giù le tapparelle il più silenziosamente possibile e poi torno da lei, lasciandole un lieve bacio a stampo tra i capelli.
-Dormi bene, piccola.
-Inquietantemente smielato.- commenta una voce dietro di me. Daniel. Che figura di merda.
-Fossero fatti tuoi.- replico, uscendo dalla stanza con lui al seguito.
-Jacopo lo sa?
-Cosa?- chiudo la porta a chiave.
-Andiamo, non fare lo stupido.
-Non c'è niente che debba sapere.- inizio a camminare per il corridoio e lui mi viene dietro.
-Ti sei preso una sbandata per lei, non è vero?- insinua, mentre iniziamo a scendere le scale.
Sì, è vero.
-Fatti i cazzi tuoi, Den.
-Non la conosci nemmeno, amico.
-Fatti. I cazzi. Tuoi.
-Mi dispiace, comunque.- blatera. Lo ignoro, mentre salto gli ultimi gradini. -Voglio dire, deve essere un brutto colpo sapendo che fra qualche settimana inizierà a scopare con Bossi giornalmente.
-Lo sarebbe, se provassi qualcosa per lei.- sto al suo gioco mentre attraversiamo l'atrio.
-Infatti è così. Ma almeno te l'ha fatta una sega?
-Smettila di rompermi il cazzo, Daniel.
-Cristo se sei nevrotico, Jev. Stavo scherzando.
Entriamo in cucina e io passo dalla padella alla brace: Jacopo, appoggiato ai fornelli, ci saluta con un cenno del capo, poi rivolge l'attenzione su di me.
-Tu accompagni Drew, oggi.
-Cosa? Dove?
-In giro. A fare commissioni varie. E stasera dovete andare ad una festa da Gulli, quindi vestiti decente.
-A che scopo?- mi lamento. Non ho alcuna voglia di passare l'intera giornata con Drew, è terribilmente insopportabile. E non voglio lasciare Emma con loro.
-Allo scopo di spaccargli il culo. Ha quattromila euro che deve a Zachary.
-E Zachary ne deve venticinque a te, giusto?- si intromette Daniel.
-Esattamente. Tu e Drew prendete quei fottuti soldi e portatemeli, a costo di mandarlo in ospedale.- mi ordina Jaco, riferendosi a Gulli. Non sarebbe la prima volta, i debiti sono debiti, ma non sono il tipo di persona a cui piace andare a "spaccare il culo". Sto in questa cazzo di villa solo perché non ho un altro posto in cui stare, e mi tocca pagare parte dell'affitto così.
-Ora va a svegliare Drew e andate, lui sa cos'altro dovete fare. Vi rivoglio qui per le dieci di domani mattina, chiaro? Con quattromila euro e possibilmente voi interi.
-Ok.- sospiro. Almeno cambio un po' aria. Posso tirarmi dietro quell'ubriacone sedicenne di Drew e fare quel che mi pare, magari riesco a trattare in modo più ragionevole con Gulli.
-Jev- mi richiama Jacopo. -Le chiavi.
Prendo le chiavi della camera di Emma e me le rigiro in mano. Non ho altra scelta, se non farla morire di fame là dentro. Gli lancio il mazzo e lui mi dà una pacca sulla spalla prima di uscire dalla cucina con Daniel.
Proprio mentre cerco di far partire la macchinetta del caffè che nessuno riesce ad aggiustare da giorni (forse nessuno ci ha mai davvero provato) il mio cellulare inizia a squillare. Mio padre. Ha chiamato anche ieri, forse c'è qualcosa che non va. Non mi chiama mai così spesso, o con così tanta insistenza.
-Pronto?
-Pronto, Jev?
-Ehi, ehm, sì papà. Sono io.
-Oh, ciao, Jev.
-Ciao, papà. Va tutto bene?
-Sì, certo. Certo... Solo che non rispondi da mesi... Pensavo avessi cambiato numero. O che non stessi bene, o insomma... Non lo so.- la voce di mio padre rovinata da anni di alcool e fumo rimbomba nelle mie orecchie con un tono preoccupato mentre cerco di capire come cazzo si gira la leva della macchinetta del caffè. Non posso fare una gita in giornata di una simile portata senza prima bermi un caffè, è allucinante.
-Dovresti passare da casa, un giorno di questi.- borbotta al microfono.
-Ahm, certo, papà... Senti, è possibile che l'aggeggio per fare il caffè si inceppi se si bagna il fondo? Non capisco...
-Senti Jev, dico davvero. Fai un salto a casa. La mamma è preoccupata.
-Cazzo, papà, anch'io dico davvero. Sono le otto del mattino, voglio un caffè.
-Jev...- lo sento sospirare e di risposta sbuffo rumorosamente. -Jev, tua madre non sta bene. Non l'aiuta il timore che tu... Lo sai, ha paura che come tua...
-Non nominare mia sorella, cazzo. Io non sono Emma. Io non sono Emma! Non mi ammazzerò solo perché non c'è il pollo a cena, capito, papà?
-Cristo... Non parlarne così. Se ti sentisse... Non si è "ammazzata". E non dire che l'ha fatto per il pollo, le manchi di rispetto.
Invece è stato proprio così: Emma era tanto delusa dalla vita perché vedeva il male ovunque senza vedere il bene. Era capace di deprimersi per giorni se per cena non c'era il piatto che aveva che aveva chiesto lei.
-È morta, papà. È morta. Non manco di rispetto a nessuno. Perlomeno lei non ha più il problema del caffè al mattino.
-Forse è meglio se non vieni, Jev. Già, sarebbe meglio.
-Ok.
Aspetto il click, che arriva lasciandomi addosso una sensazione di abbandono. Non sentivo mio padre da Natale, siamo a marzo. Eppure aspetto sempre che mi chiami, giusto per sapere che mi sta cercando, che sta pensando a me. E quando rispondo, quelle rare volte, sono sempre dannatamente stronzo. Eppure è bello sapere che lui richiamerà sempre, e ascolterà il tu-tuuu per minuti, fino allo scattare della segreteria telefonica. Vorrei poter essere un figlio migliore, uno di quelli che va allo stadio col padre e il suddetto padre gli compra la sua prima birra. Ma non è mai stato così e non lo sarà mai: per questo lo odio. Lui, e mia madre, e mia sorella, la mia famiglia, mi hanno abbandonato.
-Ah, sto giro hai risposto.- Drew è seduto sulla penisola in marmo e cerca di imburrarsi una fetta biscottata. Non lo avevo notato prima, e non so perché abbia deciso di parlare solo ora.
-Sì.
-Perché? Di solito non rispondi.
-Non è vero, a volte rispondo.
-Perché oggi in particolare?
-Non lo so, io...
-Ti mancava?- Drew morde la sua colazione e mi guarda come se fosse la cosa più banale al mondo.
Non lo avrei mai ammesso, nemmeno a me stesso.
-Sì, mi mancava, Drew.
-Oh. E che ti ha detto?
-Niente, di passare a trovarli.
-Chi?
-Lui e la mamma.
-Ah. Beh, quando vai?
-Non credo che ci andrò più, Drew.
-Ma perché? Hai la mamma. Io non ce l'ho mai avuta sai? Nemmeno il papà. Se avessi una mamma e un papà credo che ci andrei, a trovarli.
-Lo so Drew, mi dispiace. Ma i miei genitori non sono i genitori che vorresti avere.
-Sei proprio un coglione. Preferirei avere uno che mi chiama tutte le settimane anche se non risponderò, anche se lo tratto di merda e non lo vedo da anni, piuttosto che non avere nessuno. Cioè, Jev, capisci? Io non ho proprio nessuno.
-Non è vero, tu hai Daniel.
Drew mi lancia un sorrisetto addolorato e mi sento un ingrato per non esser corso dai miei genitori.
-Daniel mi ha fatto da padre, e da madre, e da fratello maggiore, e da migliore amico. Ma tra poco fa 23 anni, capisci? Non è come avere dei genitori veri. Tutto quello che sono lo devo a lui, ed è già un lusso per me potermi trovare qui. Ma tu no, insomma, hai una famiglia... Cosa ci fai qui?
-Lascia perdere.
Mentre ci infiliamo in macchina dopo aver concluso la colazione e aver capito la destinazione, ripenso a ciò che mi ha detto Drew. Ha ragione razionalmente, e mi dispiace che non abbia mai avuto una famiglia, ma non può capire cosa voglia dire sentirsi dire dalla propria madre che io me ne devo andare di casa perché lei non vuole affezionarsi a me, perché non può superare un altro figlio morto. Nessuno lo può capire.

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