Capitolo 8

344 25 5
                                    

Tarzana, Los Angeles, California - 10 Aprile 2005 - 21:00 P.M.

Il viaggio in macchina fu assolutamente imbarazzante per me che non riuscivo minimamente a distogliere lo sguardo da Bill, o meglio, dal suo corpo, cercando di non farmi vedere da nessuno: sarebbe stato fin troppo umiliante, perché tecnicamente quello era diventato mio fratello e per nessuna ragione al mondo avrei potuto fare certi pensieri per nulla fraterni su di lui, come nulla fosse, perciò mi violentai mentalmente affinché i miei occhi cambiassero soggetto, e per poco non sobbalzai quando andarono a posarsi su Georg che, sentendosi osservato, si voltò in mia direzione e dopo avermi fatto l'occhiolino mi mandò un bacio volante, facendo "svolazzare" la sua mano verso di me, facendo lo stupido come al solito e beccandosi uno scappellotto da Simone che credeva mi stesse infastidendo, così cercai di tirare le labbra in una smorfia che avessero almeno l'accenno di un sorriso perché Georg era sì un ragazzo simpatico, socievole e credevo potesse diventare davvero un buon amico ma... era Georg, nulla di assolutamente paragonabile alla bellezza quasi esoterica di Bill.

Arrivati al ristorante ero talmente scioccato dal lusso sfrenato di quel locale da non accorgermi dell'occhiataccia del moro che non si preoccupò di farsi sorprendere mentre mi squadrava nuovamente con aria di sufficenza, avvicinandosi poi a Simone "Mamma, credo di dover essere brutalmente sincero con te e dirti che mai in vita mia metterò piede in un locale pubblico assieme a quel coso arrivato da New York, okay? Guardalo! Ed io che speravo che essendo un newyorchese sapesse almeno le regole basilari del vestirsi, questo non sa manco che i vestiti si usano per vestircisi, non per nuotarci dentro!" sbottò con fare melodrammatico, passandosi una mano sulla fronte in un gesto fin troppo teatrale e provai irrimediabilmente pena per quella donna dai capelli ramati che scuoteva la testa sospirando rassegnata, e non c'erano dubbi che Simone dovesse soffrire di qualche disturbo masochistico, perché altrimenti non si spiegava per quale assurdo motivo avesse voluto adottare un altro figlio disastrato come me quando a complicarle già abbastanza la vita c'erano quei tre che di semplice avevano ben poco, o in un caso particolare, assolutamente nulla, sì, perché in Bill nulla era normale, banale, tutto era dannatamente unico, suo, e adorai anche il modo originale in cui mi insultava e ne fui stranamente felice quando mi resi conto che i suoi insulti volevano dire che almeno non gli ero indifferente, che qualcosa dentro gli suscitavo e che quel qualcosa fosse disgusto, poco importava, era pur sempre qualcosa... o almeno speravo.
Sentì la rossa rispondergli tra i denti di smetterla perché si stava comportando esattamente come quegli stronzi che a scuola lo picchiavano in bagno perché vestiva diverso e si truccava, e che perciò doveva darci un taglio con quelle scenate da prima donna con la sindrome da fashion victim e provare a conoscermi oltre ai vestiti.

Probabilmente sia io che lui pensammo la medesima cosa perché i nostri occhi si incrociarono e mentre io pensavo che avrei voluto assolutamente conoscerlo oltre ai vestiti, non seppi mai che lui arrossì appena sotto quel trucco pesante, offuscato dalla poca luce presente e si morse la lingua per non dare risposte che difficilmente si potevano spiegare.

Nel ristorante ci ritrovammo seduti di fronte per volere di un destino dai capelli castani più piastrati di una donna, rispondente al nome di Georg che si fiondò sul posto accanto al mio, e Bill costrinse Gustav a sedersigli accanto per non dover avere quell'animale affamato del fratello maggiore di fronte mentre provava a nutrirsi.
Provai più volte a sfuggire al suo sguardo che per tutta la cena mi fissò, mi studiò insistentemente, quasi potesse spogliarmi con quegli occhi che ricordavano il colore di un caldo thè al limone, di quelli che ti riscaldano la vita per poche ore durante una giornata fredda e piovosa, ed era quello l'effetto che facevano a me quelle due gemme d'ambra: mi riscaldavano, arrivavando quasi a scottarmi dentro, e lasciai che mi bruciassero, volevo bruciarmi, incapace di volere qualcosa di diverso.

Fu con gli stessi pensieri che al ritorno mi addormentai in auto, scivolando in un sonno profondo popolato da capelli neri e occhi che sapevano parlare, che sapevano dare vita;
Fu con quei pensieri che senza rendermene conto scivolai con la testa contro la spalla di colui che mi scombussolava dentro, il viso incastrato nell'icavo del suo collo, cullato dal suo profumo di dolci appena sfornati, coccolato dal battito accelerato del suo cuore che non seppi mai quanti battiti perse mentre quelle due gemme mi fissavano, incapaci di allontanare la loro veglia dal mio sonno.

LifeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora