Mi svegliai all'improvviso, quasi cadendo dal letto. Alzandomi lentamente e, scostando le bianche tendine dalla finestra di cui non compresi mai l'utilità, vidi che era ancora buio. Il sole doveva sorgere, ma non ci sarebbe voluto molto. Levai lo sguardo sulla parete della mia stanza, in direzione dell'orologio. Erano ancora le 4:53. Sbuffai, leggermente assonnato. A volte capitava di svegliarmi nel bel mezzo della notte, ma riuscivo subito a riaddormentarmi. Invece stavolta non vedevo l'ora di alzarmi. Scappai dal letto, come se il materasso fosse pieno di tantissimi chiodi appuntiti e infuocati. Ero molto turbato, probabilmente avevo fatto un brutto sogno. Beh, poco importava. Non li ricordavo mai, e non era un problema; fortunatamente Lheksia mi aveva regalato l'analizzatore REM, un dispositivo all'avanguardia che, collegato al cervello tramite dei cavetti a forma di cuffiette, proiettava le immagini di ciò che si aveva sognato la notte precedente. Più lo strumento veniva attivato vicino al risveglio, più il sogno -o l'incubo- appariva nitido e chiaro. Era senza dubbio un incredibile oggetto, ma spesso dubitai della sua credibilità.
Fu mio padre a inventare questo meccanismo,e fu lui a brevettare il progetto. I diritti di produzione erano suoi, e aveva annunciato al mondo di aver inventato lui stesso l'analizzatore; era un asso con gli algoritmi del sofisticato Master-computer. E il fatto più strano, che tuttavia non mi interessava più di tanto, era che questo marchingegno fosse nato quasi dal nulla, un giorno all'improvviso mio padre lo aveva presentato al mondo. Nessuno gli aveva chiesto i perché lo avesse fatto, e di conseguenza lui non rivelò mai nulla di tutto ciò. Non chiarì neppure qualche mia curiosità innocente, e non me ne feci una ragione esistenziale: non importava chi fosse il creatore, quell'aggeggio non mi piaceva e basta, era troppo strano per i miei gusti. La cosa che mi chiedevo era come fosse possibile che nemmeno una persona si ponesse qualche domanda. A volte mi pareva che noi umani fossimo solo un branco di pecore che mangiano e basta, senza sapere o chiedersi cosa stesse mangiando effettivamente. Una piccola parte di me pensava di odiare l'analizzatore REM ma scacciai immediatamente quell'inutile pensiero. Non m'importava nulla di ciò che riguardava mio padre. Provai a pensare a Lheksia, così, per distrarmi. Non era nemmeno a conoscenza della parentela che avevo con l'inventore, e aveva speso un sacco di soldi per comprarlo. Per la verità non le avevo mai parlato di papà, né del nostro rapporto. Volevo tenerla lontana da quell'uomo. In altre circostanze avrei sicuramente rifiutato il suo regalo, e non mi sarei neanche sentito in colpa, tuttavia lei non meritava questo. E poi, una volta posseduto sarebbe stato uno spreco imperdonabile non usarlo. Quindi mi decisi e uscii silenziosamente dalla mia camera, anche se in casa non c'era nessun altro. Assonnato, scesi pian piano le scale. Ogni rampa produceva un suono sordo e fastidioso, mi chiedevo se si sarebbero rotte da un momento all'altro. Sembravano non finire mai. Accesi la luce del corridoio per non inciampare sulle scarpe che avevo lasciato all'angolo e mi appoggiai un attimo alla parete. La sera precedente avevo dimenticato di prendere le pillole per il cuore, e di conseguenza avevo un po' di tachicardia. Tempo fa il dottore -un caro amico di mio padre che mi visitò credo solo per la loro amicizia- mi diagnosticò una leggera aritmia vascolare. Niente di che, avrei dovuto soltanto prendere delle pillole ogni sera per il resto della vita. Potevo praticare tutte le attività fisiche che volevo, senza correre alcun rischio. Sospirai e ripresi a camminare, benché un attimo prima andassi a passo di lumaca. Mi diressi velocemente verso il ripostiglio. Dato che non avevo mai utilizzato l'analizzatore, era normale un po' di nervosismo. No, non era normale. Non mi importava nulla di quell'aggeggio fasullo, e per un attimo mi venne l'impulso di fermarmi e lasciar perdere. Invece accesi la luce, e non fu difficile trovarlo tra le poche cose che giacevano abbandonate per terra. Mio padre odiava il disordine, mentre io mi ci trovavo a mio agio. Ogni tanto pensavo se la mia vita fosse una continua opposizione al mio unico genitore.
Andai in cucina e posai il macchinario sul tavolo di vetro, proprio al centro della stanza. Mi piaceva molto, aveva il medesimo colore delle alte pareti, e poi era abbastanza grande da ospitare almeno 10 persone o anche di più. Nonostante fossimo in due ad usare quella cucina -il più delle volte solo io-, mi sarebbe piaciuto condividerla con altre persone. Che so, qualche parente o amico. Amavo stare in compagnia, anche se passavo molto tempo in solitudine. In effetti Lheksia non era mai venuta a casa mia, avrei potuto invitarla, magari. Mi alzai d'impulso per prendere il mio Fanhio -la versione migliorata e aggiornata dell'ormai vecchio cellulare, cui rimangono solo pochi esemplari in tutto il mondo e la maggior parte era esposta in determinati musei-, dimenticandomi dell'orario. Quando sbloccai il sottile schermo di vetro temperato con la password vocale scorsi l'ora: erano ancora le 5 del mattino. Lheksia mi avrebbe sicuramente mandato nella Luna Nova, o "il buco nero del mondo" come lo chiamavamo noi, se l'avessi chiamata così presto.
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La voce del tempo
Science FictionAnno 2034, il mondo è molto cambiato. Ban, un giovane ragazzo con un passato difficile, ottiene l'accesso alla prestigiosa Accademia delle doti superiori, a cui tutti aspirano. Per lui non fa differenza, l'importante è allontanarsi da colui che gli...