Grazie mamma e papà.

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Era sempre da togliere il respiro, in qualsiasi modo, persino con un sacco nero al posto della maglia. Ed era lì, non molto lontano dal mio armadietto, con il suo fedele amico/cagnolino Ray.

Avevo così voglia di urlare, di inveirgli contro, di abbracciarlo, di correre e saltargli addosso, possibilmente stringendogli il collo e soffocandolo.

Bipolare e psicopatica, che novità.

Mi persi osservando le sue labbra muoversi, finché qualcuno alle mie spalle ridacchiò.

«Smettila di guardarlo così, sembri una maniaca!», commentò divertita Liz.

Costretta girai lo sguardo verso di lei. Alzai le spalle fingendomi disinteressata. «Non so di cosa tu stia parlando».

Diedi una botta secca all'armadietto per chiuderlo in una volta sola attirando l'attenzione dei ragazzi nei paraggi e anche di Nathan. Gli lanciai un'occhiataccia di sfida, quale diamine è il tuo problema? Si voltò nuovamente verso Ray, sembrava una risposta chiara la sua: Nessuno scema.

Sospirai.

«Non capisco perché non me ne vuoi parlare», commentò Liz mordendosi l'interno della guancia.

«Di cosa hai paura? Del mio giudizio? Che lo dica a qualcun altro? Non potrei mai!», alzò la voce fissandomi con uno sguardo piuttosto deluso.

Le sistemai una ciocca di capelli sfuggita dal suo immancabile elastico a pois. Non volevo essere dura con lei, ma non avevo la forza né tanto meno la voglia di discuterne ancora.

«Semplicemente non c'è nulla da aggiungere. Ci siamo lasciati e parlarne ancora renderebbe la storia più importante di quello che è».

Le sorrisi sincera e lei annuì.
«Va bene», rispose semplicemente.

«Ora vado, cerco di sopravvivere a questa mattinata interminabile». Strizzai l'occhio e stringendo il manuale di biologia al petto mi incamminai a passo svelto verso l'aula 5.

«Non è importante, non lo è più», sussurrai.

Prima o poi me ne convincerò.

Tre lezioni ed una pausa più tardi entrai nella macchina di mio fratello e misi la musica per evitare il rischio di parlare ancora. Alzai addirittura il volume per rendere ancora più chiara la mia intenzione, ma Joe non era un tipo che si lasciava dissuadere facilmente. Dopo alcuni minuti infatti riprese il comando della radio e la spense. Oh no.

«Come è andato il rientro?», indagò senza mezzi termini.

«Come giudichi un compito di matematica di cui non sapevo l'esistenza? Male, malissimo», risposi in un lamento esasperato.

Strinse il volante, lo notai dalle sue nocche improvvisamente più chiare, ed il suo volto si incupì.
«Ed è solo la scuola che ti rende triste?».

Bastò quel piccolo attimo a trasformare Joe in nostro padre. Quella domanda gli costò indubbiamente fatica, non eravamo quel genere di fratelli dalle confidenze cuore a cuore, ma sapevamo difenderci a vicenda se qualcuno osava procurare del male all'altro.

«Peccato che ti manca la barba e qualche capello bianco», borbottai puntando lo sguardo oltre il finestrino.

«Che?», non capì, suscitandomi una risata.

Vidi gli alberi di magnolia stellata del mio giardino, quelli di cui mio padre andava particolarmente fiero, e la macchina rallentò fino a fermarsi.

Salva, pensai sollevata. Raccolsi lo zaino dal tappetino e aprii velocemente lo sportello.

«Niente Papà Jo'», con una linguaccia mi allontanai in fretta facendogli alzare gli occhi al cielo.

Quando passa l'InvernoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora