Chi dice che devi uscire?

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Con passo incerto e domande confuse dai sensi di colpa arrivai a casa di Ethan, una villa di un bianco particolarmente luminoso che riusciva a spiccare dalle vicine anonime a schiera.

Il giardino era curato alla perfezione, nessuna foglia gialla autunno fuori posto, nessun ciottolino sfuggito dagli altri a causa di una camminata veloce, o non so, un rametto caduto per il vento.

Eppure, tutte le volte che capitavo in quella casa, ero alla ricerca di quella imperfezione, di quel simbolico "Oh, dopo lo sistemiamo o forse no, sta bene anche così".

Una cosa fuori posto mi avrebbe fatto sentire a mio agio, apposto con i miei capelli disordinati, con il viso sfatto e con quella tuta un po' macchiata dal caffè.

E invece nulla...

Sospirai profondamente e suonai il campanello tre volte, un chiaro e familiare segno del mio arrivo.

In quel periodo avevo trascorso più della metà del mio tempo a casa di Ethan - il resto lo avevo passato in camera tra pianti e chili di cioccolata antidepressiva.

Natalie - sua madre - era una donna incredibile, una lavoratrice a tempo pieno ed una madre premurosa e giovanile.

Del padre invece sapevo ben poco e del suo aspetto avevo un ricordo piuttosto confuso, lo avevo intravisto solo un paio di volte in città. Si era separato dalla moglie quando Ethan aveva circa dieci anni. Non me ne aveva mai parlato spontaneamente, ragion per cui non gli avevo mai domandato nulla al riguardo.

«Oh ciao mia cara», mi fece entrare in casa la signora Natalie.

Sorrisi fingendomi rilassata.
«Salve signora Fox, Ethan è in casa?».

Annuì, lisciandosi con la mano i vestiti e avviandosi in cucina. «Sì, come sempre è nella sua camera. Come stai?».

«Bene, bene», la seguii per educazione e continuai. «Oggi mi sono concessa una pausa dallo studio e volevo organizzare un'uscita nel pomeriggio con Eth, ma avevo problemi col telefono e ne ho approfittato per fare due passi», le risposi mentendo.

«Hai fatto bene, con questa bella giornata. Vai, vai da lui».

Feci un cenno con la testa e mi voltai verso le scale che portavano al piano superiore dove si trovavano la camera di Ethan, il bagno e la camera degli ospiti.

«Scusami Ele», mi sentii nuovamente chiamare da Natalie. «Ti conto per il pranzo?».

Curvai nuovamente le labbra in un sorriso sincero e scossi la testa.
«No, grazie. I miei genitori mi aspettano a casa, ma la prossima volta non rifiuterò».

La prossima volta? Sempre se ci sarà.

Ripresi a salire le scale finché non mi trovai di fronte la porta di Ethan.

Entro o prima busso?
Al diamine.

Bussai ed entrai subito dopo senza dargli il tempo di domandare chi fosse.

Lo vidi subito, era seduto al centro del suo letto ad una piazza e mezza invaso da fogli, colori e matite. Stava disegnando, segno evidente che era molto nervoso. In quei momenti bisognava stargli alla larga, ma non quella volta. La causa della sua rabbia ero io e dovevo risolvere la situazione il prima possibile.
Aveva indosso una tuta – la giornata degli sportivi, pensai – ed i suoi ricci erano più ribelli del solito, in una mano aveva una matita mangiucchiata all'estremità e nell'altra teneva fermo il foglio sopra un manuale di scuola che faceva da ripiano. Alzò il viso vedendomi e sorpreso girò immediatamente il disegno, alla stessa velocità con cui io abbassai lo sguardo.

Quando passa l'InvernoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora