1.Quando scopro che l'acqua è asciutta

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"Allora Helia cosa intendi fare quest'inverno?" Mi chiese il signor Wilson scrutandomi da sotto gli occhiali a mezzaluna. "Tornerò al centro di recupero e aspetterò una vostra risposta, sempre che abbiate l'intenzione di adottarmi" risposi. Miss Wilson fece uno strano verso, come quello di una gallina strangolata, e poi, senza guardarmi prese la forchetta e iniziò a fissare le punte, come se fosse la cosa più interessante mai vista al mondo.
Ogni estate il centro recupero bambini e ragazzi orfani mi affidava ad una famiglia diversa negli Stati Uniti.
Con quella scusa mi ero girato tutte le città più belle del paese. New York, Los Angeles, Philadelphia, Miami e altre. Questa volta ero finito a Las Vegas con i signori Wilson. Erano una famiglia ricchissima che possedava tre casinò sparsi per la città. Era una delle tante famiglie che mi ospitò quell'estate, probabilmente un po' per obbligo.
Supposi che il centro di adozioni li avesse torturati fino al midollo per costringerli ad ospitarmi, oltre all'entrata in gioco della pietà.
Quale quasi sedicenne ha la sfiga di non essere mai adottato o minimamente calcolato in una vita intera?
Il sottoscritto.
Andava di moda adottare i neonati o roba così, ma ero stato piccolo anche io e mai in sedici anni qualcuno ebbe l'intenzione di portarmi con se a casa.
Certo, il mio aspetto forse poteva rendere dubbiosi perfino i dottori più esperti: sembravo perennemente malato. Sin da piccolo ebbi la pelle bianca come la mozzarella e i capelli di una tonalità strana. Erano neri, be' non prorio, erano più o meno di un blu scurissimo.
Per non parlare dei miei occhi! Va be' alcune persone hanno la mia stessa patologia, ma non può essere tutto una coincidenza, no? Abbinati a tutto il resto del mio aspetto, erano come un pugno in un occhio. Un' iride era azzurra, l'altra color nocciola.
Nell'insieme non sembravo molto un ragazzo qualsiasi.
Ero diverso.
Me lo dicevano sempre quando ricevevo la meravigliosa notizia (sono ironico) di non essere stato adottato. Di nuovo.
Ma chissà per quale assurda ragione, i Wilson mi davano l'impressione di essere una brava famiglia, pronti ad ospitarmi. Dicevo così di tutte le altre e mi sbagliavo sempre.
"Vedi Helia, io e Debby ci abbiamo pensato molto. Sei un adolescente e per quanto potremo tenerti ancora con noi? Non molto, anzi due o tre anni forse, i ragazzi giovani come te si dimostrano ribelli, pronti a fare qualsiasi bravata. Non mi fraintendere, tu sei un bravissimo ragazzo, ma non siamo pronti ad avere un adolescente in casa. Vogliamo aspettare. Ci dispiace ma... Non siamo ancora in grado" disse il signor Wilson.
Sorrisi e poi lo provocai. Mi ero tenuto quella roba troppo a lungo dentro e volevo aspettare le persone giuste con cui sfogarmi. Persone che compravano la felicità della gente. Erano il classico esempio di genitori presenti, contenti di vederti... erano tipi a posto, ma fino a quando quella messa in scena sarebbe retta?
"È tipico delle persone come voi. Non siete capaci?! Ok! Non ci sono rimasto male, sono solo arrabbiato... Per un mese! Sì, per un mese mi avete fatto capire di essere più che pronti. Mi avete mentito ed io detesto chi mente. Passerò il mio compleanno qui solo perchè sono obbligato, e sappiate che non lo faccio per voi. Scusate, non ho fame" mi alzai velocemente ed uscii dalla stanza.
Chuck, il loro unico figlio naturale, mi fece la linguaccia alle spalle. Mi odiava. Aveva otto anni e se non fecevi come ti diceva lui ti si beccavi un bel po' di calci negli stinchi.
La casa dei Wilson era enorme. Era su due piani, con più di otto camere da letto sparse in giro. La mia era al piano di sopra, tra il bagno e la stanzetta di Chuck.
La camera era immensa. Aveva un letto matrimoniale sulla parete a sinistra, vicino ad un armadio bianco incassato nel muro. La scrivania, ugualmente bianca, era disposta di fronte al letto. Non c'erano finestre, ma un enorme porta finestra che si apriva su un terrazzo tutto per me. Mi affacciavo spesso lì per osservare le mille luci colorate di Las
Vegas. Quella sera pioveva.
Uscii nonostante i goccioloni che scendevano battenti. La pioggia mi rilassava. Mi arrabbiavo spesso negli ultimi giorni di permanenza in una città, perché forse, non ero mai stato coccolato o accolto come un bambino tra le braccia di una madre, o forse, stavo semplicemente diventando bipolare. Perchè una mamma non l'avevo e non l'avrei avuta neanche quest'anno.
Solo, anche per i miei sedici anni. Sembrerei un idiota se dicessi di non voler una famiglia o di poter contare solo su me stesso. Tutt'altro, volevo qualcuno che mi trattasse come un vero figlio. Mi affacciai al balconcino e guardai in alto.
Aspettai che le gocce mi colpissero come piccoli schiaffi su frone, occhi e labbra.
Respirai a fondo cercando di cogliere l'essenza della pioggia, ma poi aprii gli occhi quando mi resi conto di una cosa. L'acqua che mi stava, anzi, che non mi stava colpendo, evaporava subito al contatto con la mia pelle. Allungai il braccio aspettando che qualche goccia ci cadesse su, ma appena questa si avvicinava, ed era a meno di un millimetro, evaporava in tante goccioline che tornavano spedite nel cielo tra le altre gocce di pioggia.
Due erano le spiegazioni: 1. Le gocce di pioggia mi ritenevano talmente brutto da non volermi toccare
2. La mia rabbia mi aveva fatto raggiungere i 100 gradi centigradi e le gocce evaporavano al solo contatto con la mia pelle.
Optai per la seconda spiegazione e mi rintanai nella mia camera.
Ero completamente asciutto, nessuna goccia sulle braccia o sui capelli, niente. Ma i miei vestiti la vedevano diversamente; erano fradici! Me li levai e misi il pigiama.
Mi sedetti di fronte alla porta finestra. Cosa cavolo era appena successo? L'acqua non evapora così per scelta! Non era la prima cosa strana che mi accadeva con l'acqua, ma non era mai evaporata sfiorandomi. Certo, a volte i bicchieri colmi di bibite spesso si suicidavano al mio passaggio, ma io che colpa ne avevo se loro si buttavano giù dai tavolini! Ero terribilmente attraente per la limonata! Era quella che amava versarsi di più ai miei piedi, rispetto ad altre bibite. Il mio fascino batteva quello di qualsiasi succo di frutta. "Ora ti paragoni ai succhi di frutta!" gridai contro il mio riflesso sul vetro. Mi lasciai cadere sul pavimento pensando all'acqua, speravo di non doverla anche sognare o mi sarei ritrovato anche con i pantaloni bagnati la mattina successiva.

//spazio autrice//

Salve gente.

Questo è il primo capitolo sulla storia di Helia. Non mi chiedete da dove vengono le idee sul suo aspetto o perchè si paragona ai succhi di frutta perchè cerco di immergermi nel cervello di un ragazzo questa volta.

Ok, ragazze..non vi preoccupate il vostro fidanzato non farà il cascamorto con tutte le limonate che incontrerà..ma dettagli..

😂😂😂

Ci vediamo al prossimo capitolo

-giulipy03

L'Accademia delle stelle: Le OmbreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora