28 - Rei (non corretto)

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Due settimane dopo...

Okay, posso farcela. Respira, focalizzati sulle cose positive della vita. Immagina un drago o un uccello di dimensioni extralarge che sputa fuoco.

Ecco, non sono forse questo i draghi?

Corrugo la fronte dubbiosa mentre fisso sconsolata la mia tela bianca. Questa tela è bianca da due settimane. Due fottute settimane che provo a disegnare qualsiasi cosa che non rappresenti o sia inerente al gran casino chiamato "Dublino", ma resto per ore a fissarla senza sapere cosa disegnare, cosa creare.

Sospiro scoraggiata e richiudo i miei acquerelli nell'apposita scatola, metto via il pennello e copro la tela.

Maledetto blocco, penso uscendo dalla mia stanza, a casa dei miei. Sono entrambi a lavoro, come ogni giorno del resto, e sono sbalorditi dal rivedermi in casa con loro. Non che mi odino, ma ho rotto loro talmente tanto l'anima per andarmene che gli è sembrato stranissimo vedermi bussare alla loro porta quel venerdì sera di due settimane fa. Stessa sera in cui dovevano uscire con degli amici a cena grazie a Dio, altrimenti mi sarei subita il sesto grado di mamma e papà Roberts.

Sesto perché oltre al terzo di mia madre ci si sarebbe messo di mezzo pure mio padre e si sa, avrebbero pensato entrambi ad un'unica cosa: che sono incinta e il bambino è senza padre. Eppure ho sempre detto ai miei genitori di smetterla di guardare quelle inutili telenovela tedesche che continuano a dare sulla TV via cavo!

Scendo lentamente le scale a piedi nudi, gustandomi la sensazione soffice della moquette sotto alle piante dei piedi e mi beo del profumo di "casa". È strano che dopo tutto questo tempo passato "lontano" queste mura mi sembrino così famigliari e sconosciute al tempo stesso.

Striscio i piedi sino alla grande vetrata della villetta dei miei, quella che affaccia sul giardino anteriore alla villetta in pietra in perfetto stile vittoriano e mi lascio cadere sul piccolo davanzale interno sul quale mia madre ha fatto cucire un cuscino su misura: sia io che lei adoriamo sederci qui e leggere, magari con il plaid quando fa più freddo. È una delle poche cose che ho ereditato da lei.

Afferro il libro che ho iniziato a leggere qualche giorno fa, rigorosamente pescato dalla libreria di mio padre e riprendo la lettura di questo classico di Agatha Christie, mentre il cervello vola lontano.

Vola a Dublino per la precisione. Vola verso le mie scelte forzate dell'ultima settimana ma cosa più sconvolgente vola da una persona in particolare, una persona che mi manca da morire e che mai arei pensato mi mancasse così tanto.

Nel suo piccolo è riuscita a trasmettermi così tanto e quando i suoi occhi celesti prendono il sopravvento su ciò che sto leggendo, mi fermo. Blocco la mia lettura e con lentezza tiro fuori dalle pagine del libro un foglio piegato a metà. È l'unica cosa che mi sono potata dietro da Dublino, l'unica che in quel venerdì mattina mi pareva avere senso in tutto quel garbuglio: il disegno di Alice.

Quello che fece la prima volta che la conobbi e suo padre me la affidò perché nessuno dei suoi famigliari poteva tenerla. Osservo gli omini disegnati con i diversi colori e materiali: io e suo papà che la teniamo per mano e Pasty sul tetto di una casa sproporzionata. Per questa parte ha usato i pastelli a cera e sono più tenui rispetto agli elementi secondari, come gli alberi, il prato – una striscia fatta con tre diversi pennarelli verdi – o i fiorellini. A splendere sulle nostre teste c'è un sole giallo e radioso e sui nostri volti sono stati incisi con i pastelli dei sorrisi che farebbero impallidire qualsiasi altra cosa. Persino una stella cadente.

Sfioro l'omino che rappresenta Alice e sospiro cercando di reprimere il magone, e le lacrime che affiorano ogni volta.

Il problema è questo.

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