1 - Big city life (r)

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E allora prendi la mia mano, bella senorita, 
disegniamo sopra il mondo con una matita. 
Resteremo appesi al treno solo con le dita, 
pronta che non sarà facile, tutta in salita.

Allora prendi tutto quanto. 
Baby, prepara la valigia. 
Metti le calze a rete, il tacco. 
Splendiamo in questa notte grigia!





Cazzo, sì, finalmente. Ce l'ho fatta. Dio, che goduria. Neanche un orgasmo mi appagherebbe così.

Ecco, questi sono stati i miei testuali pensieri e stati emotivi dopo aver ritirato il diploma a scuola. Ovviamente seguito da un sonoro "Vaffanculo" mentale a tutti i professori. E mica son scema che li mando a cagare ad alta voce. ...Non così scema, almeno. Sono stati cinque anni d'inferno, lo giuro. Una classe stupenda, li adoravo tutti dal primo all'ultimo ed eravamo molto uniti, ma la scuola in sé, i professori... Devono bruciare, come Roma sotto Nerone, e ci devono buttare sopra il sale come a Cartagine.
Allora immaginatevi questa situazione. Una ragazza che viene da un quartiere pseudo Bronx di periferia, bocciata in terza media eppure geniale nelle materie umanistiche. La suddetta ragazza, dopo la bocciatura, non capisce più un cazzo e invece di iscriversi al liceo pedagogico come aveva programmato, va a finire in un istituto tecnologico settore informatica. Una scelta piuttosto tattica, in realtà, perché mettete caso che dopo il diploma pedagogico non avrei potuto continuare con l'università? Sapete cosa c'avrei fatto con quel diploma? Devo dirvelo?
Ma cinque anni di lotte continue non me li tolse nessuno. Ogni anno uscivo con un minimo di due debiti, nelle materie di indirizzo. Mi diplomo per culo, e solo perché l'esame di maturità si basa sulle botte di culo, con un bel sessanta regalato - «A professo', se me mette sessanta non me vede più e io non vedo più a lei. Un affarone» - ma che me ne importa? Il mio obbiettivo era iscrivermi all'università e fare finalmente ciò che desideravo, studiare ciò che mi piace.
Ho passioni morbose: le lingue, la storia e l'antropologia delle regioni medio orientali e iraniche. Sarà per via del sangue, del DNA. Fatto sta che ho fatto il test d'ammissione per la facoltà di Lingue e Civiltà Orientali alla Sapienza. Giusto stamattina poi, e con la scusa ho portato alcune delle mie cose alla casa in cui abiterò. Me l'affitta la mia ex insegnante di teatro, si trova in una proprietà privata a Colle Oppio, in una traversa di via Cavour dietro il parco.

Qui la vita è un po' diversa da quella della mia città. Diciamo che da dove vengo io la gente non è coatta, è burina. E ignorante. Una città portuale ai piedi delle colline, un miscuglio letale di pecorari e pescatori. Roma è diversa, è varia e più calorosa. Sì, la delinquenza sta pure qua – avoja, manco a dillo – ma è diversa da quella del mio quartiere. Daje rega', la zona da cui provengo è bloccata nel tempo, quasi totalmente tagliato fuori dal resto della città perché due fossi ci separano dal resto. È un quartiere periferico, popolare, pieno di pregiudicati: negli anni '70 se qualcuno di mai visto ci entrava, si beccava una coltellata dietro la coscia e muto.
Siamo pecorari-pescatori, barbari e villici, che hanno sempre guardato la grande città di Roma, a solo un'ora di distanza.
Sono sempre stata diversa da loro, dovevo evadere. Qualcuno cominciando l'università, decide comunque di restare a casa sua e farsi il viaggio in treno. Io non sono così, appena ho visto che avrei potuto appoggiarmi da qualche parte, me ne sono andata.

Adesso ho davvero un problema serio. Che cazzo me compro ne 'sto mercatino? L'egiziano già m'ha chiesto dieci volte se ho scelto. Porta Portese è sempre piena di gente, tra i mercatini c'è ogni tipo di persona, di ogni sesso possibile. Avrò contato una decina di persone che s'intascavano oggettini di bigiotteria soltanto nei banchi intorno a me.

«Guarda che se continui a guardalli così quell'orecchini, se 'nnamorano. Fa' che non t'ho detto niente».

Okay questo non è l'egiziano che mi sprona a scegliere e togliermi dai coglioni.
Mi giro, incrocio due occhi dal taglio selvaggio, famelico come quelli dei lupi, scuri come cioccolato. Il volto è squadrato, la pelle olivastra, i capelli sono rasati ai lati e sopra più lunghi legati in un cipollotto.
Inclino la testa per studiarlo meglio. Mascolino, bello veramente. Bello come pochi. Ha il fascino predatorio dei grandi felini, tipo le pantere, le tigri. E vorrei urlare, perché è davvero il mio tipo.

Anche se in realtà la mia innata indole da iena, mi porta a formulare una risposta acida: «Senti, nun è aria», ma come faccio a rispondergli male? Mi mordo la lingua.
Un bagliore dorato attira la mia attenzione. I suoi orecchini. Sono esattamente quelli che cerco.

«Ma io me so' innamorata de loro» gli rispondo invece. Brava, non bruciarti subito.

Lui si tocca gli orecchini. «Li voi uguali?»

«Più sottili, più grandi»

«Guarda che dall'orefice li trovi»

«A matto! E mica me vado a vende l'organi!».

Io boh, ma che sei scemo che vado dall'orefice? Se sto qua è perché n' c'ho 'na lira, te che dici fraté?

E inaspettatamente lui si mette a ridere. Solo a titolo informativo, 'sto ragazzo c'ha 'na voce erotica da morire. Roca, graffiante. Una di quelle voci che ascolteresti pure mentre legge la spesa, per dire.
«Vabbè ho capito, vie' co' me che te ce porto, te faccio vede dove ho preso questi» e mi fa un cenno con la testa prima di sparire tra la folla.

Cioè manco mi aspetta, no ma tranquillo. Lo intravedo perché quel cipollotto è difficile non notarlo.
A titolo informativo – parte due – 'sto ragazzo c'ha un bel culo.
Mi aspetta di fronte alla bancarella di quella che ha tutta l'aria di essere una zingara. Ci scambia due parole e lei tira fuori degli orecchini uguali ai suoi. In effetti, pare un po' zingaro questo qua. Però uno di quelli belli... perché ce ne sono, di zingari belli, fidatevi.
Quando faccio queste osservazioni mi sento molto zecca.
Lui mi passa gli orecchini, io sfoggio uno dei miei migliori sorrisi.

«Grazie»

Mi sorride anche lui. Cos'è, una battaglia a chi ha il sorriso più bello? No, perché hai vinto a mani basse.
«Ma de che, pe' avette fatto vede ndo stanno du' orecchini?» sbuffa divertito «Devi vede qualche altra robba

«No ma che, me ne so' comprata un botto tra anelli, collane e bracciali» e scuoto il sacchetto, come se volessi sottolineare un concetto serio.

«Te la fai sempre qua?»

E qui te volevo!

«No»

«Te posso accompagna' a casa se voi»

«Ma sta' bono, va'!» scoppio a ridere «Grazie, comunque. Bella».

Un, due, tre. Uscita di scena melodrammatica da film. Mi giro di schiena e faccio per andarmene. Poi il cliché: mi afferra per il polso.
«Eh no, non m'hai detto come te chiami, piccolé»

Ciao. Che te lo dico a fa'? Roma è grande, non ci rivedremo mai. So già che mi tormenterai i sogni per tutta la settimana, ce manca solo che prendiamo confidenza.

«Lo so» gli faccio l'occhiolino, e gli regalo il miglior sorriso da stronzetta che posso.

Lui mi sorride divertito e mi lascia andare. Indietreggio  di un paio di passi mentre lo guardo, come se volessi tatuarmelo nella mente. La verità è che lo so già che mi sarà impossibile scordarmelo del tutto.    

I WON'T SLOW DOWN ▸ Damiano David [Måneskin]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora