XVIII

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Non ne parlano. L'indomani il sole sorge come se non fosse successo nulla, e le due si lasciano alle spalle Bloomington prima che possa giungere al suo picco.

La Ford Torino scorre liscia sull'asfalto, i pneumatici così morbidi che Camila entra in un fase di dolce distrazione, che la culla per tutto il tragitto fino a Springfield, la loro prossima meta.
La pagina di Bloomington rimane vuota, sul diario, Camila decide che improvviserà uno schizzo senza significato di qualche strada che ricorda - se ci riuscirà mai, dato che nulla l'è rimasto realmente impresso, a parte la sensazione delle sue labbra sulle proprie, sul collo, e le sue mani sui fianchi, la stretta lenta ma determinata, cupida-

«Hai fame?»

La voce di Lauren interrompe il flusso dei suoi pensieri, come se non vi avesse fissato la propria residenza per tutta la notte, per tutto il giorno, fino a un secondo, una frazione di secondo prima, interrompendo, in modo paradossale e metaforico, se stessa.

«Non molto» mormora, ancora leggermente intontita dai continui flashback con cui la propria mente si prende gioco di lei.

«Fermiamo ad un café, ti va?»

Non ne parlano, ma la sera precedente qualcosa è cambiato per sempre. Un piccolo movimento, come quello delle zolle sotto la crosta terrestre: invisibile e impercettibile all'occhio umano ma che, a lungo andare, può dar origine a interi vulcani. Qualcosa cambia, ed è quel "ti va?" alla fine di una frase, come se adesso avesse un granello di cura in più. È il modo in cui getta sporadicamente occhiate verso di lei per assicurarsi che abbia la testa appoggiata correttamente al sedile, quando si appisola, oppure la mano che tende per aggiustarle la cintura la quale, di tanto in tanto, scivola su un lato poiché difettosa.

È davvero un insieme piuttosto piccolo di dettagli infinitesimali, ma conta più di quel che si possa immaginare, ed è sufficiente a scaldarle il cuore (e le guance).

«Non è un po' tardi?» chiede, alludendo al cielo già quasi del tutto scuro.

«Beh, prendiamo qualcosa e poi cerchiamo un posto in cui dormire» fa spallucce, e spegne il motore.
Camila annuisce, infine, lasciandosi convincere.

Quando siedono al café - un piccolo locale all'inizio della città con davvero pochi clienti al suo interno, i quali si dileguano man mano che l'orario avanza - Camila si guarda attorno curiosa, in attesa di qualcuno che venga a prendere il loro ordine.
Il tavolino è vicino alla finestra, le cui tapparelle sono già abbassate, e le due ragazze sono sedute una di fronte all'altra, silenziose mentre riflettono su cosa prendere (o almeno, questo è quello che fa la bruna).

Nel ventunesimo secolo funziona così, il cameriere arriva al tavolino e prende l'ordinazione.
Camila, tuttavia, non ha mai mangiato ad un café del ventesimo.

Lauren, invece, sa perfettamente di dover richiamare l'attenzione di un cameriere, che arriva da loro dopo aver superato lo sportello che lo confinava dietro al bancone.
È un ragazzo, forse poco più grande di loro - al massimo cinque anni di più - e porta i capelli in un ciuffo disordinato, lunghi fino a metà collo e leggermente gonfi, probabilmente intenzionalmente, e indosso ha un grembiulino che gli arriva fino al ginocchio, in principio bianco, ma notevolmente sudicio per via degli innumerevoli panini con salse che avrà preparato nella sua carriera.

«Sera, ragazze. Cosa vi porto?» chiede con un sorriso smagliante, il mento solo leggermente coperto da una barba rasata evidentemente un paio di giorni prima, i cui segni di ricrescita si vedono soprattutto sulla mascella.

Lauren volge uno sguardo a Camila, che ancora consulta il proprio menù, un dito al mento per concentrarsi, e le sopracciglia aggrottate.
«Tesoro, ci vuole ancora molto?» le chiede, con l'ombra di un sorriso dolcemente scherzoso sulle labbra.

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