XXII

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Il rumore dei cancelli rimbomba nelle orecchie di Camila, insieme al vociare degli agenti che la tengono stretta per i polsi. Camminano da almeno un quarto d'ora, dopo essersi recati sul posto con la volante della polizia.

Non credeva che sarebbe mai salita su un'auto delle autorità, né tantomeno per un arresto. Ed è alquanto singolare - e perfino sinistro, da un certo punto di vista - che lei trovi esilarante la situazione. Talmente tanto che, addirittura, vi è un momento in cui deve trattenersi per non scoppiare a ridere.

È un'ironia sarcastica, sdegnata, forse quel riso deriva da una disperazione che non riesce a manifestarsi per il picco di assurdità toccato dalla situazione corrente.

Camila tiene il capo chino, capelli che le scivolano sugli occhi e le impongono come unica visuale il sudicio pavimento di cemento che calpesta coi propri passi. Vorrebbe guardare alla propria destra, sa che anche lei è lì, ma non si azzarda a farlo per evitare che la pressione sui suoi polsi diventi più insistente - ha sempre odiato venire strattonata.

«E ora? Ci buttate in gattabuia?»

La voce sarcastica di Lauren fa la sua ricomparsa, aggiungendosi al coro costituito dal tintinnio continuo delle chiavi di metallo appese alle cinture dei poliziotti.

«Se hai questo entusiasmo possiamo farti stare anche fino a dopodomani» risponde a denti stretti uno dei due agenti (sicuramente quello che si occupa di lei), quasi sputandole addosso quelle parole. Camila non ha mai capito perché la polizia da quelle parti abbia sempre avuto un gusto sadico nel mettere dentro i criminali. Non si tratta di una semplice sete di giustizia, ma pare quasi che la prendano come una vendetta personale, una realizzazione delle proprie frustrazioni. Questo loro aspetto l'ha sempre indignata, e da ciò ne è derivato un graduale allontanamento dalla speranza nella legge e nelle autorità.

Ma non osa alzare lo sguardo su di lei, anche se vorrebbe farle cenno di piantarla. Per quanto l'idea di andare in prigione non l'abbia spaventata come credeva, preferirebbe che il suo soggiorno lì fosse il più breve possibile.

«Oh, davvero? Ora che ci penso potrei prendermi una bella cella in affitto, magari per un paio di mesi» dice, e segue una risata strozzata, quasi isterica. Un brivido corre lungo la schiena di Camila al suono tanto irriconoscibile quanto familiare.

«Giuro su Dio-

«Jenkins, piantala di dare corda a questa stronzetta. Non vedi che ti sta solo provocando?» lo interrompe il collega, alterato, e quanto pare ciò diverte la ragazza dai capelli corvini ancor di più.

«Giusto, Jenkins» mugola, con tono schernitorio «non vorrai perdere tempo con una stronzetta del genere?»

Camila potrebbe giurare che tutto ciò che Lauren desidera sia essere massacrata, poiché vi è una tale avventatezza e provocazione nel suo tono, è come se sperasse con tutta se stessa di suscitare qualunque tipo di reazione estrema da parte dell'agente, che invece sospira - ringhia, più che altro - e continua a camminare, i tacchetti dei suoi stivaletti di cuoio che percuotono il pavimento.

Come se non avesse nulla da perdere.

Arrivano alla cella di destinazione, e non è affatto un luogo accogliente.
Tutto intorno è buio, essendo notte, e l'umidità che viene emanata dalle pareti pare sprofondare giù nelle ossa. Camila distingue la sagoma delle sbarre e un paio di figure all'interno.
Certamente, non poteva aspettarsi che venissero privilegiate con una cella a parte.

«Siamo insieme a tutti gli altri bastardi?» chiede in un borbottio Lauren, ma abbastanza alto da far sentire i due agenti.

«Già, vi abbiamo divisi nelle celle provvisorie»

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