21. Just one day

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Mi ritrovo qui, di fronte alla porta della sua stanza, il pugno alzato, le nocche pronte a toccare la superficie liscia della porta, sperando che senta il mio bussare leggero e mi dia il permesso di entrare. Ma ancora le mie nocche non hanno toccato la porta, perché non sono pronte a farlo, perché non sono pronto a farlo.

È la decisione giusta, questa?
Probabilmente no. Probabilmente la maggior parte delle persone avrebbe mandato a quel paese prima Michael e poi Calum e avrebbe provato a rimettere insieme la propria vita – e il proprio cuore. Avrebbe preso pezzo per pezzo, un po' di colla vinilica, e si sarebbe impegnata a incollare tutto alla bell'e meglio e a proseguire con la propria vita, anche se di merda, anche se con sangue, sudore e lacrime.

Ma io no, io sono fuori dalla stanza d'ospedale di Michael, il braccio alzato e l'espressione disperata sul volto.

In questo momento mi servirebbe un infermiere che, passando e vedendo la mia patetica condizione, decidesse di darmi un calcio sui denti.

Rilascio un sonoro sospiro e busso finalmente alla porta, attendendo che mi dia il permesso di entrare, cosa che fa senza farmi attendere molto a lungo. Difatti qualche secondo dopo il suo "avanti" mi arriva alle orecchie e la mia mano, decisa, si apre e si appoggia sulla maniglia, per poi socchiudere la porta e far trapassare uno spiraglio di luce, che arriva da ambe le parti, sia da fuori che da dentro. Mi affretto ad entrare e mi chiudo la porta alle spalle.

Michael è, come gli altri due giorni in cui sono venuto a fargli visita, sdraiato sul letto, ancora un po' più magro, ancora un po' più stanco, ancora un po' più pallido. Mi osserva, sorpreso, ma si riprende all'istante, fissandosi sul viso un'espressione tranquilla, pacata, quasi di disinteresse. È così? Non gli interessa? Non gli interesso?

Mi faccio troppi problemi.
Ma forse è meglio farsene troppi che non farsene affatto.
Ma forse sarebbe meglio trovare una via di mezzo, sarebbe la cosa migliore. È sempre la cosa migliore.

Scuoto la testa e abbandono a loro stessi i miei pensieri senza senso, concentrandomi di nuovo sul ragazzo.

Indico la sedia, chiedendo, con una domanda silenziosa, a Michael se possa sedermi. Quest'ultimo annuisce semplicemente e io mi dirigo verso la sedia, per poi spostarla un po' più lontana dal lettino e sedermici sopra.

Porto le mani incrociate tra le ginocchia, tengo la schiena leggermente piegata e lo sguardo verso il basso, insicuro.
«Volevo prenderti un bicchiere di tè nero dalla macchinetta all'entrata, ma non sapevo se ti piacesse, o se lo potessi bere» prendo la parola, pronunciando sillaba per sillaba, attento a non balbettare a causa dell'ansia. E attento, soprattutto, a non dire cose fuori luogo, come mio solito. Non che per me sia un problema, ma, a quanto pare, lo è per gli altri – a detta di Hailee.
«Va bene così, ho già fatto colazione» mi rassicura.

Annuisco, alzando il viso e puntando lo sguardo sul suo volto dalle linee morbide, su cui vorrei affondare le dita e che vorrei carezzare come se fosse la cosa più pura e fragile di questo mondo.

Scuoto leggermente la testa, scacciando via, ancora una volta, i miei pensieri, e sperando vivamente che non me ne lasci sfuggire qualcuno dalle labbra sottili.

«Cos'hai mangiato?» gli chiedo.
«Perché sei di nuovo qui?» mi chiede contemporaneamente.

In silenzio, con un semplice sguardo, decidiamo quale sia l'argomento più importante da intraprendere. E ovviamente si tratta del suo.

«Perché se non avessi voluto avere a che fare con me, me lo avresti detto» mormoro, citando le parole che Hailee mi ha detto, giusto ieri, per convincermi a venire qui questa mattina. «Giusto?» chiedo, per accertarmi della veridicità delle parole della mia migliore amica, che ormai sono diventate mie.

«Sei molto di più rispetto a quanto dai a vedere» espone, e non sono sicuro stia parlando con me o stia pensando ad alta voce.
«Non è così per tutti?» chiedo, inclinando la testa di lato, confuso. «Non siamo tutti di più rispetto a quello che diamo a vedere?»

«Sai cosa, quella proposta del tè la accetto» mi dice, sorprendendomi.
Mi trattengo dal sorridere, annuisco, e mi alzo in piedi, dandomi una sistemata ai pantaloni, scesi leggermente, e alla maglietta, alzatasi leggermente.

«Quanto zucchero?» chiedo, controllando che il portafoglio sia al suo solito posto, nella tasca destra posteriore dei miei pantaloni scuri, così stretti che rischio di distruggere i miei gioielli di famiglia.
«Non mi piace lo zucchero nel tè» ammette.

Annuisco, ancora una volta, ed esco dalla stanza, dirigendomi alla macchinetta, mentre il sorriso che poco fa ho trattenuto inizia a spuntarmi sul viso. Prima è un semplice sorriso a labbra strette, man mano diviene un vero e proprio sorriso, i denti bianchi e dritti esposti a tutti. Se l'infermiere in cui speravo prima mi passasse accanto adesso, mi prenderebbe per pazzo. Ma sarebbe l'occasione perfetta per darmi il fatidico calcio sui denti.

Mi posiziono davanti alla macchinetta, ordino prima il mio tè al limone, con due di zucchero, e poi il tè nero di Michael, senza zucchero.

Sto attento a non farli cadere – e a non cadere – mentre torno nella stanza, e ringrazio mentalmente il fatto che mi sia dovuto allenare così tanto per restare concentrato per il mio potere che adesso il mio equilibrio è quasi perfetto. Quasi, perché mi distraggo più spesso del necessario, in realtà.

Rientro in camera e porgo il bicchiere di plastica con il tè caldo al suo interno a Michael, stando attento che non si bruci le mani, e poi mi appresto a bere un sorso del mio, tiepido, avendolo preparato prima.

Beviamo, rompendo il silenzio creatosi nella stanza solo coi nostri respiri e con qualche frase di circostanza.
E adesso?

«Se ti restasse solo un giorno di vita» inizia a dire Michael, facendo sì che la mia attenzione si fissi tutta su di lui, «come lo passeresti?» mi chiede infine.

«Ci sono così tante cose che vorrei fare» ammetto. «Ma se ci penso seriamente, nessuna di queste sembra abbastanza importante per essere l'ultima avventura della mia vita» proseguo, anche se in parte so che, se dovessi passare l'ultimo giorno della mia vita e sapessi si trattasse dell'ultimo, probabilmente deciderei di passarlo con la mia famiglia, con i miei amici e con Michael. Ma non posso dirglielo, vero? È troppo presto, vero? «Tu che cosa faresti?» gli chiedo quindi.

«Saluterei tutte le persone a me care la mattina e mi metterei a dormire il pomeriggio.»
«Perché?»
«Perché avrei troppa paura per riuscire a fare altro» si stringe nelle spalle e punta lo sguardo sul suo bicchiere quasi vuoto.

È la prima volta che mi mostra un lato di sé che definirei debole e non ho idea di cosa dire o fare. Lo dovrei consolare? Gli dovrei ricordare che di certo non morirà domani e che quindi non ha di preoccuparsi a riguardo? Perché non morirà domani, vero?
«Michael, cos'hai realmente?»

Just one day, if only we can be together
Just one day, if we can hold our hands
Just one day, if only we can be together
Just one day (just one day)
If only we can be together
Can you please stay with me?
(Just One Day – BTS)

🌸🌸🌸

HOOOLA!
Come state? Tutto bene?

Dedico questo capitolo a Calum, essendo oggi il suo compleanno (tanti auguri, bimbo!!!), e a me stessa, essendo oggi il mio onomastico (lmao).

Cosa ne pensate del capitolo? Credete che Michael dirà - finalmente - a Luke il motivo per cui si trova all'ospedale? E se sì, secondo voi, questo motivo, qual è?
Fatemi sapere i vostri pensieri con un commento e ricordatevi di lasciare una stellina.

Just one day one night tuturuturututuuu
Vi consiglio di ascoltare questa canzone dei BTS, perché è meravigliosa (come tutte le canzoni dei BTS, eh eh eh).

Vi ricordo che ho creato un account Instagram (shatiaslove_) dove pubblico cose riguardo alle mie storie.

Ci ritroviamo giovedì prossimo con un nuovo capitolo!

#Staytuned 😎
e
#Fighting 💪🏻

A presto.
- Tatia;

⭐️👁👁💧

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