39. Yesterday's Feelings

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Questo capitolo contiene tematiche delicate,
quali abuso fisico e mentale e tentato suicidio.

«Ciao» mormora quella che riconosco essere una voce maschile, abbastanza profonda, abbastanza calda.
Volgo la testa leggermente, confusione ben stampata sul mio viso paffuto, da ragazzino, quale sono, e trovo la figura di un ragazzo al mio fianco, forse poco più grande di me, uno o due anni in più. Quasi sussulto, nell'incontrare i suoi occhi scuri, leggermente coperti dalla frangia nera che gli ricade sulla fronte e che gli sfiora le ciglia lunghe, anch'esse nere. Prendo un respiro profondo e «Ciao?» rispondo a mia volta, un tono indeciso e interrogativo nella voce.

«Sono Gregory» si presenta, porgendomi una mano, che stringo al volo. La mia, di mano, è sudaticcia e sottile e con una presa delicata; la sua, invece, ha qualche callo, e la presa è forte.
«Luke» rispondo, ancora confuso da cosa diamine stia avvenendo.
«Piacere di conoscerti, Luke» risponde, e mi sorride, e quel sorriso avrò difficoltà a cacciarmelo dalla testa.

💭

Sono sistemato in un angolo, l'intero corridoio scolastico in bella vista davanti a me, gli studenti che camminano e parlottano tra di loro e ridono e si divertono e si godono questo periodo abbastanza tranquillo, prima dell'arrivo degli esami e dell'ansia e delle nottate insonni con più caffeina che acqua e sangue nel corpo.

Sono da solo, le labbra sottili e rosee serrate, la frangia che mi finisce sugli occhi, ma non la sposto via, perché va di moda, perché è così che dovrebbe stare, anche se è la cosa più fastidiosa che esista al mondo.
Sono da solo, seduto per terra, le gambe incrociate, le mani intrecciate tra di loro, i palmi costantemente sudaticci.

Ho gli auricolari bianchi alle orecchie e sto ascoltando una tra le mille sigle di Fairy Tail, non capendo neppure una delle parole pronunciate dal cantante, ma ricevendo bene i sentimenti che voleva trasmettere nel momento in cui l'ha scritta e l'ha prodotta.

Continuo ad osservare gli studenti, senza concentrarmi troppo sui loro visi o sulle loro figure, per evitare di diventare lo strano ragazzino che osserva tutti e con cui nessuno vuole avere a che fare, cosa che probabilmente sono già.

Fino a che non lo vedo.
Non lo rivedo, anzi.

È ancora bello, come lo ricordo. Non che sia passato così tanto tempo, eh, ma la mia memoria è pessima.

I capelli neri gli ricadono ancora sul viso, in un'acconciatura simile alla mia – perché, ripeto, va di moda.
Il sorriso gli si stampa sul viso magro, i denti bianchi perfettamente allineati, le labbra sottili che lo contornano. Non sono certo raggiunga gli occhi, però, che, al momento, sono poggiati sulla figura di una ragazza – su cui non mi concentro particolarmente – che gli cammina accanto.
Le mani le ha riposte nelle tasche dei jeans scuri, che gli ricadono larghi sulle caviglie, ricoprendo parte delle scarpe da tennis che sta indossando.

Sembra alto.
L'ultima volta che l'ho visto, era seduto, perciò non mi ero reso conto della sua altezza effettiva, e non me ne ero neppure interessato particolarmente, troppo sconvolto dal fatto che mi stesse parlando. Sempre che sia alto e non si tratti della ragazza ad essere bassa.
Mi chiedo quanto mi supererebbe, se stessimo uno vicino all'altro, spalla contro spalla. Mi chiedo di quanto dovrei alzare la testa, mi chiedo se mi verrebbe naturale, alzarla per guardarlo, e mi chiedo se gli verrebbe naturale, abbassarla per guardarmi.

Il suo sguardo, per un millesimo di secondo, incrocia il mio, e giuro che sento tremare tutta la mia colonna vertebrale. Ma poi ritorna sul viso della ragazza. E lo seguo con occhi incantati fino a che non gira l'angolo e non sparisce dalla mia vista.

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