40. Epilogue

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«Luke?» mormora Hailee, puntando lo sguardo preoccupato su di me, cercando di incrociare i miei occhi probabilmente distrutti.

Siamo fuori dall'ospedale, seduti per terra, sul marciapiede freddo, sotto un cielo cupo, abbinato al nostro umore.
Avrei scelto un posto diverso per parlare, ma non ho avuto neppure il tempo di aprire bocca, perché Hailee non me lo ha dato, perché Hailee me lo ha impedito. Quello che ha fatto è stato, invece, prendermi per un polso e dirigersi verso l'uscita, per poi costringermi a sedermi per terra, al suo fianco, senza permettermi di fare storie.

«Sì?» mormoro a mia volta, non incrociando il suo sguardo, perché ho paura di vedere cosa si nasconda nella sua anima e ho paura di mostrarle ciò che si nasconde nella mia.

«Questa decisione è tua, solo tua. Sei maggiorenne e non hai bisogno del permesso di nessuno per prenderla. Però...» si interrompe e la noto con la coda dell'occhio fare una smorfia piena di dolore, che sono certo rappresenti solo l'1% di quello che prova realmente. «Però pensaci bene, per favore» mi implora.

«Pensavo avessi superato tutto, pensavo la situazione fosse sotto controllo» le dico, stringendomi nelle spalle, per farmi più piccolo, ma anche per proteggermi dalla fredda aria autunnale. «Pensavo che la terapia avesse funzionato, che non avrei mai più avuto pensieri simili. Ma forse mi sbagliavo...» ammetto, mordicchiandomi il labbro inferiore con foga, rilasciando tutta la mia ansia nei semplici morsi.

«Io penso tu abbia superato... quelle cose» mi dice la mia migliore amica, avvicinandomisi di qualche centimetro, fino a sfiorare la mia spalla con la sua. «Però hai ancora una cicatrice, Luke. Che si è chiusa, ma è sempre lì, è parte di te e lo sarà sempre.»

«Ho paura» ammetto, lasciando la possibilità a qualche lacrima di ricadere giù per il mio viso arrossato, un po' per il pianto un po' per il vento freddo.

«Di cosa hai paura?» mi chiede, con voce pacata, tranquilla, per evitarmi un attacco d'ansia che sento potrebbe arrivare da un momento all'altro, ma che probabilmente, grazie alla sua presenza fissa al mio fianco, non arriverà.

«Ho paura di morire, ma ho anche paura di perdere Michael» le rivelo, abbassando lo sguardo, osservando il modo in cui le mie lacrime finiscono sui miei pantaloni scuri, non interessandomene particolarmente. Tanto la situazione del mio viso non sarà delle migliori, quindi chi se ne frega dei miei vestiti.
«Lo so, Luke, lo so.»

Mi faccio stringere in un abbraccio caloroso e continuo a piangere sull'incavo del collo della mia migliore amica.
Non diciamo nient'altro, perché non c'è nient'altro da dire.
Perché abbiamo entrambi paura, io di perdere Michael, e lei di perdere me (e anche Michael).
E quindi non abbiamo bisogno di parole, solo della nostra presenza.

💭

È passata una settimana da allora, e i miei pensieri sono ancora offuscati e confusi.

Michael è in una situazione stabile. Nel senso che rischia comunque di non riprendersi, ma, allo stesso tempo, c'è una piccolissima possibilità che ce la faccia.

Gli faccio visita per un paio di ore ogni giorno, insieme a Calum.
Molto spesso si uniscono a noi Hailee, Ashton, Sophie, Maisie ed Ashley.
Ogni tanto viene mia sorella, insieme a Brad e ai miei genitori.
I genitori di Michael sono costantemente in stanza con lui, nonostante il disaccordo dei medici.
Ma li capisco – anche se, realmente, non lo faccio, perché non ho idea di cosa significhi avere un figlio in bilico tra la vita e la morte.
Se potessi, resterei anch'io in ospedale in ogni momento della giornata, ma non è possibile.
Ma suppongo che vada bene così.

Michael a volte è sveglio, altre volte no. E, anche quando è sveglio, non sempre è in grado di intenderci, di seguire i nostri discorsi, di risponderci. A malapena ci riconosce, nei giorni peggiori.

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