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Era un uomo vigoroso, il mio John, il tipo di uomo che ogni donna vorrebbe al proprio fianco. Nel suo cuore albergavano dolcezza e compassione in egual misura, ma sapeva anche essere risoluto quando le circostanze lo richiedevano. La sua forza d'animo è stata per me come il bastone per un vecchio e, quando ha lasciato questo mondo, una parte di me l'ha seguito nei verdi pascoli del Signore.

Mi manca.

Mi manca il tocco delle sue mani, la ruvida consistenza della barba che mi solleticava le labbra, il tepore dei suoi abbracci quando mi stringeva e mi diceva: «Andrà tutto bene Mercy, te lo prometto.»

Gli credevo, quando me lo diceva. Ero giovane. Lo eravamo entrambi. Quando lasciammo Salem, una tiepida notte di molti anni fa, eravamo sollevati all'idea di abbandonare quel covo di ipocrisia puritana, teatro di abominevoli orrori.

Theresa andò alla pagina successiva.

Dei due, John era quello che si lasciava alle spalle il più sontuoso focolare domestico. La sua famiglia era una delle più ricche di Salem. Suo padre, William Hawthorne, era uno dei fondatori, nonché capo del consiglio degli anziani. Quando conobbi, o per meglio dire, incontrai John la prima volta, la mia anima fu scossa da un fremito. Accadde quando mi recai all'abitazione degli Hawthorne, un grigio mattino, in compagnia di mio padre. Mentre pestavamo le vie di Salem, un'ombra cupa come il cielo che gravava sulle nostre teste si posò su di me come un sudario. Mio padre seguitava a rivolgermi sguardi carichi di sconforto, come se anziché condurmi a casa del capo del consiglio degli anziani stesse accompagnandomi al patibolo. Avrei voluto chiedergli il perché di quelle occhiate ma avevo troppa paura della risposta.

Quando arrivammo in vista di casa Hawthorne, uno spiacevole presagio si impadronì di me.

L'abitazione che si stagliava di fronte ai nostri occhi era enorme, cupa, e mi scatenava timori che non avevo mai provato. Le assi nere, le ampie vetrate, il grosso comignolo di mattoni e i numerosi abbaini erano opprimenti nel loro insieme. E William Hawthorne era un uomo spaventoso, enorme nel fisico e per la posizione di rilievo che ricopriva all'interno della comunità. Quelle rare volte che l'avevo visto passeggiare per le vie di Salem avevo notato come tutti quelli che incrociassero il suo sguardo si affrettassero a chinare il capo, per poi profondersi in una riverenza tremante. Quando mio padre parlava di Hawthorne a mia madre, lo faceva in un mormorio a stento udibile. E non mancava mai di lanciarsi occhiate furtive alle spalle, come se temesse che Hawthorne fosse acquattato nelle ombre della stanza, l'orecchio teso a udire quei discorsi.

Mio padre mi prese per mano, mi rivolse l'ennesima occhiata sofferente e bussò alla porta della Casa Nera. Venne ad aprire una domestica, una donna esile e dallo sguardo impaurito come quello di un uccellino bagnato. Quando ci vide si pizzicò gli angoli del grembiule e si profuse in un rapido inchino, mormorando un saluto.

«Vorrei vedere il signor Hawthorne», disse mio padre.

«Il signor Hawthorne...» balbettò la donna, prima di essere interrotta dal rumore affrettato di passi alle sue spalle.

Allora si volse e si allontanò dalla soglia senza profferire verbo.

«Padre...» mormorai, ma lui mi zittì scuotendo la mia piccola mano.

L'incedere di passi si fece più guardingo e sulla soglia apparve una seconda domestica. Aveva la pelle del colore della cannella. Non si profuse in alcun saluto e ci squadrò con occhi gelidi.

«Posso esservi utile?» domandò.

«Mi chiedevo se il signor Hawthorne potesse concedermi udienza», disse mio padre.

Il diario di Mercy BrownDove le storie prendono vita. Scoprilo ora